Un'estate tra suoni e silenzi
Prendere tempo! In estate dovrebbe essere possibile ciò che è poco agevole in altri periodi dell’anno. Prendere tempo, prendere in mano il nostro tempo, per sperimentare un modo d’esperienza più intenso e un diverso approccio alla realtà quotidiana.
E allora, si potrebbe partire dal mettere a fuoco quella strana cosa che accade a tutti con l’esperienza musicale. Ci avete mai pensato? Noi possiamo fruire e godere della musica solo perché, in ogni esperienza musicale, suoni e silenzi sono indissociabili. Se non avessimo la capacità di “ascoltare” il silenzio, sarebbe impossibile anche identificare i suoni. Potremmo quasi dire che tutto il bello della musica dipende da quello che manca!
Se è così, cosa ci impedirebbe ora, in estate, mentre tentiamo di prenderci il tempo e quasi di fermarlo, di dare ascolto anche, pur non essendo filosofi, a quello che intendeva il giovane Novalis quando scriveva che “tutto il visibile è attaccato all’invisibile, l’udibile all’inudibile. Il sensibile a ciò che non può essere sentito. Il pensabile all’impensabile“?
Eccolo, di nuovo, “quello che manca“, quello che ordinariamente ci sembra non esistere, offrirsi come ingrediente ineliminabile della nostra esistenza. Almeno per quelli che hanno il tempo di accorgersene o di cercarlo. Che strano! Pare quasi che l’attenzione a ciò che manca (il silenzio, l’invisibile, l’inudibile, l’impensabile) debba rappresentare ciò che acutizza lo sguardo, ciò che apre campi d’esperienza non altrimenti possibili, come scriveva Ricoeur.
Forse non è il caso, per evitare la questione, di considerare solo un ingenuo misticismo usare anche il termine “invisibile” per descrivere la nostra esperienza della realtà. D’altra parte, anche se rimaniamo figli rispettosi della rivoluzione scientifica, non è necessario temere il termine “invisibile”. Si tratta di allenarci ad accogliere, senza presunzione, la parte “in ombra“, di questo nostro strano mondo (cose, eventi, individui umani), quella parte non riducibile alla metà visibile, senza la quale, però, neppure il visibile è veramente completo e conosciuto. Del resto, ad esempio, chi può dire che, anche, l’individuo che ho continuamente davanti è completamente definito solo da cio che vedo di lei/lui? O che le sensazioni che generano in me gli oggetti che accompagnano la mia quotidianità non rinviino ad altre dimensioni e significati indipendenti dalla loro fisicità?
In realtà avremmo bisogno di esercitarci a non fissare il senso solo in ciò che il mondo ci offre qui e ora, e di non nascondere a noi stessi l’enigma di fronte al quale siamo, e rimarremo.
Forse possiamo, almeno adesso, in estate, quando ci si offre l’opportunità di “prendere tempo” e… “perdere tempo” per avventurarci su sentieri non consueti, fare in parte quello che fanno già i poeti e gli artisti. Loro sono in grado di vedere che “ogni genere di cosa ha un modo specifico di trascendere la sua apparenza, ovvero di essere realmente al di là di quanto ne appare” (R. De Monticelli).
Qualcuno ha scritto che diventiamo sempre più incapaci di “fare esperienza”, di fare attenzione alle esperienze ordinarie e farle nostre. Pare, infatti, che oggi, solo in presenza di situazioni da shock, siamo ancora capaci di provare qualcosa. Il che, ovviamente, non riguarda solo le nuove generazioni, come si è soliti pensare. E se ciò dipendesse soprattutto dalla perdita di attitudine a cercare e vedere quello che manca, l’invisibile e l’inudibile, nelle nostre esperienze quotidiane: quello che a loro appartiene, come i silenzi alla musica, e a cui esse tendono di rinviare in ogni modo per avere un senso più pieno?
Diceva Nietzsche che le cose (oggetti, eventi, persone…) cercano le parole per essere dette: non sarà che molte delle parole che ci servirebbero per “dire” le cose, sono scivolate via dal nostro sempre più ristretto e saccente vocabolario, impedendoci così di sperimentare davvero la vita?