Mezzo secondo prima della coscienza
“C’è il pensiero, ma prima c’è l’impensato (unthought): una modalità d’interazione con il mondo,…che sfugge sistematicamente ai riflessi troppo lenti della coscienza“.
È ciò che pensa N.Katherine Hayles, riferendosi anche alle recenti scoperte neuroscientifiche che confermano l’esistenza di processi cognitivi nonconsci, e tuttavia “essenziali per il funzionamento della coscienza”.
Il suo libro, originale e innovativo nella sua struttura, tradotto in italiano da effequ editore, con il titolo L’impensato. Teoria della cognizione naturale, pone questioni che chiunque abbia a cuore gli studi umanistici (arte, letteratura, filosofia, studi religiosi, storiografia, ecc.), non può non affrontare con serietà.
Purtroppo, ha ragione l’autrice, proprio quelle questioni sono quasi sconosciute in ambito umanistico, anche se hanno e avranno sempre più un impatto decisivo nelle poste in gioco culturali, politiche ed etiche, della vita delle nostre società.
Quelle questioni che hanno a che fare con i processi cognitivi nonconsci e quindi con l’interazione tra sistemi cognitivi umani e sistemi cognitivi tecnici, oggi sempre più estesa, richiederebbero un lavoro di concettualizzazione di quelle interazioni, e un ripensamento della stessa nozione di cognizione.
Tuttavia, un fatto è certo: non siamo ancora del tutto consapevoli dello spazio che sistemi tecnici, tecnologie informatiche in generale e tecnologie della IA, per esempio, occupano già nella nostra vita quotidiana, fino a determinare sotto i nostri occhi, un vero e proprio cambio di paradigma, una “quarta rivoluzione” (Luigi Floridi), con un impatto decisivo sull’epistemologia e sulla riflessione etica.
Ancora non siamo in grado di riconoscere il ruolo oggi decisivo degli artefatti tecnici, dei sistemi socio-tecnici e delle tecnologie digitali, che N.Katherine Hayles chiama “sistemi tecnici cognitivi” o “assemblaggi cognitivi“, nella misura in cui si muovono anche con un’autonomia operativa.
Non basta neppure un approccio puramente etico a questi nuovi fenomeni. Infatti, i cultori di studi umanistici, filosofi, teologi, sociologi, storici, ecc., sogliono intervenire a posteriori, “da fuori” per cosī dire, con approcci aleatori, costituiti da un’etica puramente “passiva”, come scrive Viola Schiaffonato (Aut aut 392), il che è segno solo dell’estraneità e della poca consapevolezza della questione da parte dei cultori delle discipline umanistiche.
L’impostazione etica non è qualcosa che possa essere appiccicato come una toppa a posteriori, su un sistema già formato e messo in moto, come avviene, per esempio, nei corsi aziendali di etica, che troppo spesso si concentrano su come soddisfare i requisiti normativi per evitare cause legali. Al contrario, un efficace intervento etico dovrebbe essere intrinseco al funzionamento del sistema stesso ( Katherine Hayles).
Per questo, gli studiosi di discipline umanistiche, se davvero vogliono esercitare un ruolo nella direzione dei processi in atto, dovrebbero riconoscere di essere parte in causa nell’evoluzione degli “assemblaggi cognitivi”: questo implica una maggiore apertura verso lo studio dei media computazionali che agiscono sui sistemi tecnici cognitivi.
Ma qui siamo, noi umanisti, ancora troppo indietro. Viene in mente, a tale riguardo, una frase di Max Horkheimer quando diceva che “i teologi arrivano sempre tardi“: solo che bisognerebbe estendere i destinatari dicendo che per quanto riguarda i processi tecnici cognitivi in atto, non solo teologi ma anche letterati, filosofi, sociologi, e intellettuali umanisti, arrivano sempre troppo tardi!
Di fronte ai mutamenti di paradigma in atto, occorrerebbe non farsi irretire nelle improduttive e astratte diatribe tra apocalittici e integrati, tra tifosi delle nuove tecnologie e profeti di sventure incombenti, o tra chi teorizza di macchine come cervelli e chi sostiene che è il cervello umano ad essere come una macchina, invece di tentare di capire con quali modalità gli studi umanistici possono avere un ruolo nelle trasformazioni in corso, prendendo atto che siamo già dentro quelle trasformazioni.
Basta fare caso ai computer, agli smartphone e ai vari Alexa, Cortana, Google Assistant, Siri, ecc, che fanno parte integrante della vita quotidiana, per rendersene conto. Senza contare sistemi robotici bio-tecnici, algoritmi dell’alta finanza o droni, che in un modo o nell’altro impattano la nostra vita.
Del resto, i media di massa e i nuovi media attraverso tanti prodotti molto popolari, come film, fiction, serie tv, romanzi, ecc., che hanno come tema le questioni relative alle nuove tecnologie informatiche, alla Intelligenza artificiale, ai sistemi robotici autonomi, ci segnalano che ormai quelle questioni sono entrate già nella sensibilità ordinaria fino a diventare un fenomeno di massa: segno che quei processi, che ci stanno annunciando un vero cambio di paradigma, sono così avanzati da determinare una svolta anche nella sensibilità e nell’immaginario collettivo.
In tale contesto non serve gridare “al lupo, al lupo”, o fare a gara a chi riesce ad individuare tutti i rischi possibili: operazione in cui sono impegnati in troppi,
Ha ragione N.Katherine Hayles quando chiede alle discipline umanistiche e sociali, e a quanti sono interessati ai valori e agli studi umanistici, nei campi dell’arte, della letteratura, della filosofia, degli studi religiosi e della storiografia orientata qualitativamente, di produrre meno lamenti o foschi orizzonti futuri, e più consapevolezza e conoscenza, “dall’interno” dei processi in atto.
Ella parte da una questione che a suo parere è evidente, sulla scorta della tesi di David Barry, secondo cui “l’ontologia del computazionale è sempre più egemonica nel formare il presupposto di fondo per la nostra comprensione del mondo”.
Perciò, le vere questioni che si pongono oggi. e che non coincidono per nulla con gli accademici dibattiti sui rischi o i vantaggi delle tecnologia informatiche o della IA, sono altre e sono riassunte in modo originale da K. Hayles, nella sua opera.
Al centro della sua indagine, la sua “storia”, come lei chiama il suo lavoro, non ci sono i pensieri e la capacità proprie della coscienza superiore: la razionalità, le competenze linguistiche, ecc. Il vero protagonista della sua storia è il “soggetto incarnato”, che Hayles chiama nonconscio, “incorporato e immerso in ambienti che operano come sistemi cognitivi distribuiti”, che trasmette poi alla coscienza superiore le sue informazioni elaborate circa mezzo secondo prima dell’intervento della coscienza superiore. “Come una scrivania disordinata, la cui complicata topografia agisce come il dispositivo di memoria esterna per un proprietario altrettanto disordinata”. Questo è il ruolo del nonconscio nei confronti della coscienza superiore e razionale. Ecco perché “i soggetti umani non possono più essere contenuti – e neppure definiti – dai confini della loro pelle”, e neppure dai confini della coscienza superiore.
Ed ecco perché, un altro obiettivo dell’opera di K.Hayes è esplorare e analizzare quelli che lei chiama gli “assemblaggi cognitivi” nonconsci, che si formano nell’interazione tra sistemi cognitivi distribuiti
Se consideriamo tutta una serie di dispositivi, artefatti o macchine “intelligenti“, con cui siamo in una continua inter(intra)azione, possiamo capire per quale ragione, secondo l’autrice, non possiamo più concepire i soggetti umani solo come “se” autonomi. Ecco perché Hayles utilizza il concetto di “assemblaggio” (del resto introdotto già da Bruno Latour e Pierre Legendre) per indicare la realtà concreta del soggetto umano, non solo in quanto inserito in questa interazione continua con reti di tecnologie “intelligenti“, ma anche in quanto prodotto dall’interazione tra il suo nonconscio e la coscienza superiore. Abbiamo quindi sistemi cognitivi umani, sistemi cognitivi tecnici, e assemblaggi, prodotti dalla interazione permanente tra di essi.
Alla fine, ciò a cui tende Katherine Hayes, con il suo lavoro, è l’opportunità, dato il nuovo contesto in cui vive oggi il soggetto umano, di un allargamento della definizione di cognizione. Infatti, scrive la Hayes, forse è il caso di estendere il concetto di cognizione senza identificare quest’ultima solo con il pensiero cosciente.
Questo obiettivo si giustifica a partire dalla scoperta, sulla base dei recenti risultati neuroscientifici, (di cui l’autrice dà ampia documentazione), di quello che lei individua come “inconscio cognitivo“, termine che include sia le entità cognitive tecniche che quelle umane.
L’enorme impatto, anche epistemico ed etico che questo stato di cose può avere, e già in parte ha, è abbastanza evidente. I siatemi complessi umani e i sistemi tecnici cognitivi “si compenetrano a vicenda in assemblaggi cognitivi, scatenando una serie di implicazioni e conseguenze che stiamo ancora cercando di comprendere del tutto”(N. Katherine Hayes).
Forse “è il caso perciò di spostare la prospettiva da cui guardiamo all’uomo e alla sua relazione con il mondo”.
Purtroppo, nota Katherine Hayes, riguardo alla cognizione nonconscia, occorre rilevare che, “in ambito umanistico, non si è ancora cominciato a cogliere il suo potenziale trasformativo, e nemmeno si è cominciato ad esplorarlo e a discuterne“. Tuttavia, anche in ambito scientifico, “il divario tra cognizione nonconscia biologica e cognizione nonconscia tecnica è ancora vasto quanto la gola del Grand Canyon in una mattina di sole”.