Tempo di ripensamenti
C’è un concetto, espresso da papa Francesco, in interviste o discorsi, che fa riflettere, che potrebbe far riflettere. Si tratta dell’idea secondo cui oggi occorrerebbe rielaborare tutto il pensiero (non solo teologico) a partire dalle periferiedel mondo, a partire dagli “altri”, da quelli che non hanno una vita e non hanno voce. Probabilmente, è tutta qui la “novità“ e la “sfida” di questo papa. È da qui, e non tanto dal suo parlare di povertà, di chiesa povera o di riforma delle sue strutture, che si originano le motivazioni profonde di alcune forme, palesi o sotterranee, di preoccupazione e di opposizione alla sua linea, che emergono non solo in grossi centri del potere mondiale (è stato già accusato di “comunismo”, in America!), ma anche all’interno della “sua” Chiesa. Si pensi, del resto, che la semplice, e più innocua, parola “aggiornamento” pronunciata circa 50 anni fa da papa Giovanni XXIII, fece spuntare gli artigli a “profeti di sventura”, accovacciati tra le alte gerarchie!
Certo l’idea di Francesco non sarebbe rivoluzionaria, se si analizzassero bene le fonti scritturalicristiane. Ma lo diventa senz’altro se ci si pone dal punto di vista di strutture e prassi consolidate. Non solo delle chiese ma anche delle grandi organizzazioni del potere mondiale.
Infatti, da quegli angoli di osservazione, l’idea di un pensiero (teologico, ma poi anche politico, economico…ecc.) da rielaborare a partire dalle periferie è sicuramente destabilizzante, se è espresso da un papa. Proprio mentre, nel nostro “nuovo” ed esplosivo mondo globalizzato, sarebbe l’unico stile dipensiero, veramente necessario ed urgente!
Il fatto è che un concetto del genere si scontra con due forti impedimenti.
Prima di tutto, con una inesorabile forza di inerzia che impedisce, – non solo ai grandi pensatori, agli esperti, ai teologi, alle gerarchie, ai capi politici, ai poteri di ogni genere, ma anche a semplici credenti, o a docenti ed educatori, a tecnici, a professionisti, a lavoratori della conoscenza, agli addetti all’informazione, alle persone comuni…, – di accettare che “ripensamenti” e cambiamento di approccio alla realtà, dovrebbero diventare un compito e una prassi usuale in ogni ambito dell’esperienza.
È più “naturale” invece, presumere di conoscere già, se non “tutto”, almeno, ciò che “serve sapere”! Per cui l’ideache sia necessario interrogare continuamente, con radicalità, le proprie presupposizioni, le proprie competenze, le proprie conoscenze, le proprie credenze, le proprie visioni, per dar loro la possibilità di continuare a essere vive, perché venga reinventato il loro significato, che non rimane mai identico, in contesti diversi, – dato che la lingua stessa è un processo temporale (Madan Sarup), – non sembra sfiorareneppure i migliori, tra noi umani. Non si spiegherebbe altrimenti perché un numero considerevole di persone, religiosi o laici, qualunque sia la funzione che esercitano, pensa di non avere niente di “essenziale” da scoprire o da imparare ancora.
L’altro impedimento è ancora più grave. Perché il problema, o il compito, oggi, non è solo il ripensamento, ma il “ripensare a partire dalle periferie”. Il guaio è che, pensare “a partire dalle periferie”, non consiste tanto nello sforzo di “comprendere” i problemi delle periferie, (questo già lo fanno in molti, inebriati da quella “sindrome dell’industria del salvatore bianco“, di cui parla Teju Cole nel suo Città aperta), ma nel “porsi dal punto di vista” delle periferie! Nel tentare di vedere il mondo dal punto di vista delle periferie! Dal punto di osservazione di chi non ha una vita e non ha voce.
Ebbene, “chi” è capace di questo, oggi? Chi di noi, privilegiati abitanti del “centro” dell’impero, nonostante i nostri noiosi lamenti? Chi dei “professori”, chi dei leader, chi dei maestri, chi dei professionisti della rivoluzione senza rischi, con la loro vita tranquilla, con le loro sicure super-retribuzioni, con i loro grassi conti in banca, con le loro belle auto, le loro eleganti case in quartieri signorili, con i loro abiti firmati, le loro vacanze in siti esclusivi, le loro reti di relazioni, altolocate, a garanzia di un futuro tranquillo, ecc.?
Tornando all’esempio di papa Francesco, non credo sia una notazione geografica, la frase con cui egli si è riferito a se stesso: un papa venuto “dalla fine del mondo”. È, come dire, uno venuto “da fuori”. Dall’inferno delle terre selvagge, da un “altrove”, lontano da quegli equilibri e quelle “logiche” culturali, politiche, economiche e anche religiose, consolidate e dominanti. Di fronte a queste logiche che si puntellano a vicenda, nonostante le loro apparenti contraddizioni, ci sarebbe solo bisogno di chi decide di “stare” dalla parte delle periferie, ripensando tutto a partire da lì.
Non sappiamo se Francesco sarà in grado di “rimanere” dalla parte delle periferie e favorire un ripensamento anche teologico a partire da quella condizione.
È certo però che in quel suo concetto c’è qualcosa che fa riflettere, che dovrebbe far riflettere!