"Quando il bambino era bambino….
…era l’epoca di queste domande: …”. Un’amica, secondo cui il mistero deve accompagnare sempre la vita dell’uomo, mi ha indotto a rileggere una poesia di Peter Handke, poeta e scrittore che amo molto. “Elogio dell’infanzia“, da cui sono tratti i versi citati sopra, invita a contemplare l’ “apertura“, del bambino che ognuno di noi è stato, alla magia, al mistero, e a qualsiasi dimensione dell’esistenza, senza pretendere di dichiararne nessuna priva di senso.
In realtà, penso sia capitato a tutti, non solo a genitori e maestri, di rimanere a bocca aperta di fronte a qualche “perché” dei bambini. Tuttavia pochi, immagino, pensano che in quei “perché“, ripetuti a volte quasi ossessivamente, possa esserci una qualche lezione per noi adulti. Se c’è una logica, una logica vitale in quei “perché“, quale potrebbe essere? Non penso, infatti, che i bambini abbiano in mente un fine preciso, quando continuano a chiedere: “perché?”. Come, invece, succede quando, la stessa richiesta, viene fatta da noi adulti. I bambini non sanno se c’è una risposta alle loro domande, forse a loro non interessa neppure che ci sia. Probabilmente, il fare domande, è il loro modo di crescere. Di inseguire la vita. Essi crescono, grazie a quei “perché“. Quei “perché” li lanciano oltre quello che sono adesso!
Noi adulti, invece, abbiamo perso la consapevolezza che la vita è,soprattutto, un “perché?”. Non crediamo più che il domandare ci costituisca nel nostro essere vivi, umani e intelligenti. Abbiamo decisoche esistono ambiti riguardo ai quali, noi, gente moderna ed emancipata, non abbiamo più niente da chiederci. Pensiamo che occorra farsi domande solo quando presumiamo o “sospettiamo” che ci siano risposte.
Come scrive Jean-Luc Nancy, siamo talmente soggiogati dai limiti e dalle intimidazioni che il pensiero razionale si autoprescrive per affermare il suo carattere “adulto” e realistico, che abbiamo posto dei limiti assurdi a ciò che si “può” chiedere. Abbiamo tracciato dei confini tra ciò che è indagabile e ciò che non lo è.
Abbiamo assoggettato tutto il campo del sapere ai parametri dell’utile, del misurabile e del calcolabile, restringendo il sapere stesso a tal punto che, non solo abbiamo cancellato l’idea di un “fuori del mondo” (idea peraltro necessaria per Wittgenstein, e, in modalità diverse, anche per Nietzsche, Heidegger, Freud, Derrida), ma abbiamo anche dissolto la nozione di senso e oscurato la possibilità di percepire la “questione dell’altro” – che, sia ben chiaro, non può essere soltanto l’alter, l’altro di due, ma anche l’alienus, l’allos, l’altro da tutti e perfino l’insensato (Nancy). Una vera “autointimidazione” che il pensiero “razionale” si impone e che, alla fine, diventa intollerabile per lo stesso esercizio della ragione.
Su questa strada ci siamo infine aggrovigliati anche in una paradossale polemica che oggi riguarda la stessa idea di “ricerca” scientifica. Un caso esemplare è rappresentato dalla contrapposizione tra “ricerca di base“, che sarebbe inutile e alla quale si riducono al lumicino i fondi, anche da parte degli Stati, e la “ricerca applicata“, essa sola necessaria, produttiva e conveniente. Ma il concetto di ricerca può davvero conoscere confini? La “ricerca” non dovrebbe essere aperta a tutto, a ciò che è nuovo, ma anche inaspettato, inesplorato, non inquadrato, fuori dai confini?
In realtà, la ricerca può essere solo “di base“. Perché, quella “applicata” è un ossimoro: lì, a essere applicate, infatti, sono conoscenze che si hanno già (M. Dalmastro).
Da questo punto di vista, la ricerca di base è molto più vicina alla logica dei “perché” dei bambini: i “perché” che hanno senso anche indipendentemente dalle risposte, poiché senza di essi non si crescerebbe e non si vivrebbe.
È proprio vero, se cancellassimo dalla nostra vita le domande senza risposte…non saremmo più umani.
“La bêtise c’est conclure” (Flaubert).
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