Invito all'otium, per uomini di potere
Quando si studia con attenzione la storia passata e la si confronta con le vicende di oggi si è spinti spesso a pensare che “non c’è niente di nuovo sotto il sole” e che, in ogni caso, abbiamo poco da imparare dalle società che ci hanno preceduto, se non evitare i loro errori. Tuttavia non sempre ciò si rivela del tutto esatto. A volte si incontrano anche informazioni che sorprendono.
Per esempio, riflettendo recentemente su certi grovigli della politica italiana (vedi le spodestate minoranze di un partito di governo che fanno la lotta al loro stesso partito), ma anche sui “santi intrighi” nei palazzi vaticani (dove sembra che gruppi di porporati o curiali facciano una lotta sotterranea al loro Papa), pensavo a quanto è difficile oggi per uomini, che hanno esercitato una forma qualsiasi di potere, accettare l’idea di aver perso la partita e di doversi fare da parte. Pensavo pure che questa difficoltà ad accettare che il proprio momento è finito fosse qualcosa di molto “normale“, anche per gli uomini di potere del passato.
E invece ho dovuto ricredermi. Non è sempre stato così, se è vero quanto racconta Peter Brown, un grande storico del mondo tardoantico, in un suo interessante volume. Secondo Brown, infatti, “gli antichi nobiluomini romani non indugiavano certo sulle loro disgrazie politiche. Il fatto di essere estromessi dai pubblici uffici non era considerato come una sconfitta bensí come la possibilità di dedicare il proprio tempo all’otium” (Per la cruna di un ago, p. 262). Allora mi sono detto: se riuscivano a capirlo quelli, che avevano meno scrupoli morali di quanti ne abbiamo noi, perché questi di oggi non ci riescono? Non farebbe bene anche a loro dedicare il proprio tempo all’otium: cioè riscoprire i piaceri della cura di sé, della letteratura, dell’arte, del mecenatismo e delle relazioni sociali?
Non sarebbe, questa, una scelta di uno stile di vita più umano, più tranquillo e magari più gratificante? Forse anche più salutare. Senza trascurare gli altri “effetti”, di carattere più “elevato”, spirituali. Infatti c’è senz’altro qualcosa di nobile e bello anche nel “cedere il passo agli altri e lasciarli fare. Placare il ritmo che si impone alla vita. Essere disponibili a lasciare andare tutto ciò che non può più restare. Abbandonarsi a quello che viene…”(W. Schmid).
È vero che molti oggi sono portati, dall’egolatria imperante, a pensare che il mondo (l’umanità, lo Stato, la Chiesa… ) senza il loro “decisivo” contributo andrà in rovina. Ma tutta la storia ci dimostra che non è così. Per cui, ognuno di noi può tranquillamente lasciare che arrivi anche quella “catastrofe” a cui, presumiamo, il mondo andrà incontro se non ci siamo noi a impedirla. Sì, “Dont’ worry, be happy”, come cantava Bobby McFerrin anni fa.
Certo, soprattutto i politici, gli “impegnati”, tutti quelli che motivano la loro ostinazione a non lasciare mai la presa, dichiarando di “crederci veramente”, penseranno di non poter rinunciare a fare “la loro parte”. A loro si potrebbe rispondere che sarebbe sufficiente, invece di insistere a mantenere il controllodell’andamento del mondo, riuscire a conservare solo la parte migliore della “virtù politica” che, in sostanza, consiste nel non voler arrivare a costruire la propria città, o la propria felicità o il proprio benessere senza tutti gli altri (P.Sequeri).