Il presente senza nome
Quale nome dare al presente
Aveva proprio ragione Hegel, quando diceva che noi umani riusciamo a riconoscere il senso del tempo solo quando il suo percorso è già completato. Peccato che, il più delle volte, arriviamo troppo tardi!
In realtà, la pressione a “fare“, prevalente nella società moderna, può rendere difficile semplicemente “essere” presenti davvero.
Non credo si tratti solo di una questione di volontà. Forse, semplicemente, non ce la facciamo. Una sorta di multitasking costante aumenta lo stress e riduce la nostra capacità di concentrarci sul senso profondo del nostro presente.
Abbagliati dai luccichii del kronos, rimaniamo sempre disattenti agli “avventi” controintuitivi del kairós!
Neppure i cosiddetti “buoni“, i “virtuosi” o i “sapienti“, sfuggono a questa legge. Non è raro infatti che quelli che appaiono “migliori” abbiano mancato e manchino tuttora importanti appuntamenti con la storia. Salvo, poi, a rincorrere gli avvenimenti in modo caotico e confuso. Anche questo, spiega certi dibattiti, da talk show, inutili e interminabili “sulle grandi questioni” che, come il sorgere del sole, si ripresentano a ogni alba, a ogni crisi, come se tutto ricominciasse ogni volta con noi, daccapo.
Il presente quindi sembra senza nome. Abbagliati e aggrappati al presente immediato e appariscente, tentiamo di esorcizzare la paura dell’oscurità, ma non entriamo mai “nel merito“, e rimaniamo in quella “nebbia silenziosa” di cui parlava Heidegger.
Forse è vero che i tempi hanno una loro logica, e noi umani non saremo mai in grado di controllarla del tutto. Infatti, sarà forse vero che gli uomini fanno la storia, ma è più vero che spesso “non sanno la storia che fanno, e magari la fanno solo loro malgrado“.
Per questo, aveva ragione anche il saggio e lungimirante Michel Serres quando faceva notare che, senza che ce ne fossimo accorti, un “nuovo umano” è apparso davanti a noi, in un arco di tempo relativamente breve.
“Lui” o “lei” – scriveva – non ha più lo stesso corpo, la stessa aspettativa di vita, non comunica più allo stesso modo, non percepisce più lo stesso mondo, non vive più nella stessa natura, non vive più nello stesso spazio. In più, non avendo più la stessa testa di quella dei suoi genitori, lui o lei, conosce e sa diversamente. Anche perché non parla più la stessa lingua.
Ecco dove si radicano oggi. nel contesto digitale, alcune delle ragioni profonde della nostra difficoltà/incapacità di dare un nome al presente. Il linguaggio, la scrittura, la formazione e il loro “nuovo stato di aggregazione”(Peter Sloterdijk) che ha poco in comune con le loro interpretazioni religiose, metafisiche e umanistiche tradizionali.
E, infatti, un’ottica analoga a quella di Michel Serres, relativa soprattutto al binomio naturale/artificiale, all’insufficienza delle categorie linguistiche, e agli effetti sulla formazione umana, è anche dietro la critica che Peter Sloterdijk fa all’umanesimo tradizionale e alla sua enfasi sul dialogo e sulla ragione.
Le visioni umanistiche tradizionali valorizzano il discorso razionale, ma la prevalenza, nel contesto digitale, come nei social, di un discorso franmentato e narcisistico, fondato su “camere dell’eco”, sulla disinformazione e sulla retorica emotiva online, sfida quell’ideale di scambio linguistico.
Sembra davvero che oggi, davanti ai nostri occhi, vengano riformulate le fondamenta del linguaggio (la casa dell’essere, di cui parlava Heidegger) cioè il legame tra la cultura della scrittura e la formazione umana. Forse stiamo assistendo, inconsapevoli, a un cambiamento radicale nel modo in cui il linguaggio e la scrittura si integrano nella nostra esperienza di noi stessi e del mondo?
Lo stato e la natura del linguaggio sembrano dunque le questioni da cui partire per decifrare il nostro presente.
“La provincia del linguaggio si restringe, il settore del testo decifrato cresce” ha scritto Peter Sloterdijk.
Ma oggi non si tratta di ribellarsi contro processi in cui il superamento delle vecchie partizioni e stati di aggregazione è già avvenuto.
La continua evoluzione del paesaggio linguistico richiederebbe una riflessione filosofica costante per navigare le sfide e le opportunità che presenta.
Più che evocare rischi e pericoli, oggi sarebbe utile imparare a navigare nel paesaggio linguistico in evoluzione.
Questo forse è il tempo dei filosofi. Ma, come notava Michel Serres, non quelli troppo impegnati nella politica quotidiana, la politica del giorno per giorno; non quelli smaniosi di farsi ingaggiare come consiglieri dei principi, ma incapaci di avvertire l’arrivo della contemporaneità.
Forse ci servono filosofi dotati di un’intelligenza creativa e “fantasiosa”, intenti a fare il loro mestiere, cioè fermarsi e guardare lontano, in un orizzonte globale, per anticipare il sapere e le pratiche future.
Un commento
Luigi Vassallo
Vivere il presente, ma quale presente? Quellio cristallizzato nell’ istante o quello gravodo di un futuro da partorire? Ripensare la realtà riproducendola immobile o rinnovare il linguaggio della filosofia per cogliere le trasformazioni già in atto?