Il mondo in fuga
Cosa c’è di veramente nuovo nel nostro mondo, dal momento che storici e sociologi , a partire da Fernand Braudel (Civiltà materiale, economia e capitalismo) sostengono con buone ragioni che il mondo di cinquecento anni fa era quasi altrettanto globalizzato quanto quello odierno?
Forse, ciò che vi è di realmente peculiare, nel nostro mondo, è un particolare effetto della globalizzazione, che consiste nel non sapere dove il mondo stia andando. Infatti, pure se si dice spesso che la globalizzazione ha unificato e rimpicciolito il mondo, in realtà occorrerebbe pure dire che lo ha moltiplicato, moltiplicando e complicandone le interazioni, a livelli impensabili.
In realtà, oggi non possediamo più un senso condiviso della direzione in cui va la nostra storia.
La storia stessa sembra essere fuori dal nostro controllo, e oogi ci capita abbastanza di frequente di non capire dove ci stiamo dirigendo. Viviamo in un ‘mondo in fuga’ soprattutto dopo che la globalizzazione ha raggiunto un nuovo stadio, con l’introduzione di nuove tecnologie i cui effetti non sappia o ancora indovinare.
Non sappiamo dove stiamo andando perché abbiamo inventato un nuovo genere di rischio, come scriveva Anthony Giddens Oggi viviamo in un mondo in cui, diversamente dal passato, i principali fattori di rischio sembrano derivare da quanto noi stessi abbiamo creato, È il ‘rischio costruito’: noi non conosciamo gli effetti di quanto stiamo ora facendo, il nostro è davvero un ‘mondo inafferrabile”.
Nel mondo della interconnessione e della comunicazione globale, per molti aspetti traballa l’assunto moderno secondo cui “l’uomo fa la storia“; mentre in realtà “l’uomo non sa quale storia sta facendo“.
Anche per questo le società umane devono oggi affrontare un’indeterminazione strutturale, una specie di ‘vuoto al centro’, come sosteneva Serge Latouche.
Tutto ciò produce un’ansietà profonda che assume oggi svariate forme, sia sul piano sociale che – forse ancora di più – su quello personale.
Anche per questo la nostra è un’epoca in cui sarebbe necessario ricominciare – intellettuali, politici, economisti, religiosi, scienziati, semplici cittadini…- a porsi domande di fondo. Ma siamo ancora capaci di porre le domande necessarie?
Avremmo bisogno di riprendere a chiederci, oggi, in un contesto del tutto nuovo, cosa significa essere umani, cioè chiedersi che significa pensare, ragionare, immaginare, creare, vivere insieme. Cosa può significare tutto questo nel tempo dell’irreversibile imporsi delle nuove tecnologie e dell’Intelligenza Artificiale.?
Purtroppo, sembriamo tutti costretti in una lacerante contraddizione tra il bisogno di domande fondamentali e la schiavitù nei confronti di schemi e modalità di pensiero il cui primato è considerato indiscusso e ovvio.
Tutto questo forse è anche il frutto del sistema attuale dell’informazione massmediale. Dove, per esempio, il primato della cosiddetta informazione in tempo reale, ci abitua a un’informazione senza “perché“, senza la necessità di nessuna “spiegazione” e senza passato.
Capita, nell’informazione e quindi nella conoscenza e nella consapevolezza collettiva, ciò che capita oggi ai libri che in pochi anni o mesi, e a volte settimane, essi escono già dai cataloghi delle case editrici. Solo che per quanto riguarda l’informazione il periodo di vita è ancora più breve: addirittura giorni.
C’è ancora in un mondo del genere il tempo e il posto dove porre domande? dove farci delle vere domande?
Una volta questo compito era proprio dei filosofi e dei religiosi. Ma oggi anche i filosofi, come pensa Peter Sloterdijk, hanno perso la loro naturale capacità di “fantasticare“, mentre i religiosi cercano e offrono solo risposte.
La conseguenza è che siamo più o meno tutti nella fase della semplice ricerca di conferme. Sta diventando normale in tutti gli ambiti il modello delle sette religiose.
Perciò ci stiamo allegramente adattando a coltivare una nuova idea di verità. Una verità che non ha necessariamente qualche rapporto con la realtà. Alla fine non è questo ciò che oggi si indica come post-verità?
Forse è vero che siamo tutti segnati da quelle che Spinoza chiamava le “passioni tristi” con riferimento non alla tristezza del pianto ma all’impotenza e alla disgregazione.
Nel nostro mondo attuale, infatti, sempre più, assistiamo al passaggio da una fiducia smisurata a una diffidenza altrettanto estrema nei confronti del futuro. Il futuro, l’idea stessa di futuro, notavano qualche anno fa Miguel Benasayag e Gérard Schmit, reca ormai il segno opposto, la positività pura si trasforma in negatività, la promessa diventa minaccia. E questo “passaggio” spesso accade da un giorno all’altro, o addirittura da un’ora all’altra!
Sì, è davvero un mondo in fuga. E tutti noi dietro.