Dove vai quando rientri in te?
Sì. Dove crediamo di andare quando diciamo di rientrare in noi stessi?
Se analizziamo il nostro linguaggio e le nostre categorie, ci accorgeremo che un paradossale e infondato dualismo determina ancora oggi la nostra conoscenza e l’esperienza di noi stessi e del mondo.
Si tratta della cristallizzazione di un dualismo tra “interiore” e “esteriore“ talmente preminente, e dato per scontato, per cui “l’esterno“, o l’esteriorità, avrebbe sempre il bisogno di essere sanato, salvato o redento. Perché ciò che appartiene all’esteriorità sarebbe sempre ingiusto, negativo o del tutto effimero.
Un tipo di dualismo nato per ergersi contro un mondo ingiusto, alla fine si è rivolto contro qualsivoglia esteriorità. Di quel dualismo siamo tuttora impregnati, nota Harold Bloom.
In effetti, abbiamo a che fare con un rigido schema che, scrive Harold Bloom (Rovinare le sacre verità, Abscondita ed.), partito dalle pagine di Geremia si è trasmesso a tutta la letteratura occidentale fino ad oggi, attraverso la tradizione normativa della Bibbia ebraica, Agostino ( “Noli foras ire, in teipsum redi”), Marco Aurelio (“Le cose per se stesse non arrivano a toccar l’anima, né vi hanno alcun accesso”), il neoplatonismo, le correnti neoplatoniche e gnostiche presenti nel cristianesimo, e poi giù giù fino a Kafka e ai radicali dualismi dei “concetti limite” di Freud, e oltre.
In fondo, in base a questo dualismo, l’esteriorità non è giusta. L’esteriorità per se stessa. è l’ingiustizia e il negativo.
Ma, oggi. chi e perché ha paura dell’esteriorità fino a ritenerla il negativo, l’ingiusto, il perduto e l’irredimibile o l’assolutamente effimero?
Chi pensa che, poiché alcune dimensioni del reale sono invisibili, ciò debba spingere a immaginare un dualismo e a pensare che il visibile, l’esteriore e l’apparenza, non possano essere luogo di identificazione, redenzione e salvezza?
Chi può seriamente negare che interiorità ed esteriorità non siano altro che due dimensioni inscindibili di una unica realtà e del “vero io”?
Alla fine, per usare le parole di Peter Handke, “l’esterno” non è che “l’esterno dell’interno”, che, a sua volta, non è che “l’interno dell’esterno”, in un gioco di specchi e di relazioni intime e indissociabili?
Chi può pensare di separare l’io interno dall’io esterno, o l’interiorità dall’esteriorità?
E poi, la coscienza stessa e l’interiorità alla quale si vorrebbe “tornare“, possono davvero essere qualcosa senza l’io di “fuori“, senza le cose e l’esteriorità?