La fiera della vanità e la lezione di Callimaco
Il pericolo del vanitoso è che crede a tutto ciò che dice.
Forse è per questo che Callimaco vedeva nella vanità il vizio capitale del mondo.
In effetti, anche oggi, nell’era della “post-verità“, come nell’analoga epoca “post-filosofica”, quella di Callimaco, accade sempre più spesso che essere “sapienti“, “esperti”, “leader”, si identifichi con “prevalere” nella sfida pubblica.
Basta seguire – a patto che si riesca a farlo senza subire danni! – dibattiti pubblici, talk show, confronti sui media, e spesso anche i convegni tra studiosi, per avere la netta impressione di assistere a una fiera della vanità, dove, anche quando le questioni sembrano le più serie, l’obiettivo fondamentale non è altro che “il successo”, “l’applauso“, “l’effetto“, a qualunque costo.
Certo, ad Alessandria d’Egitto, centro e “vetrina” della più raffinata cultura del tempo, nel terzo secolo a.C., mentre si consumava il tramonto di una più che secolare cultura illuministica, e si sperimentava una svolta storica destinata a dissolvere antiche concezioni religiose, filosofiche, politiche e culturali, al punto da portare a noia anche il razionalismo, il ruolo di dotti, intellettuali, filosofi, maestri, sacerdoti, poeti, ecc. era problematico e incerto quasi come lo è oggi.
In quel contesto disincantato, tra fine dell’incessante evoluzione dei sistemi filosofici, tramonto di pathos rivoluzionario e di veri orizzonti ideali, anche Callimaco avvertiva, come altri poeti “post-filosofici”, il venir meno della fiducia nella “possibilità di dominare teoreticamente il mondo”(Bruno Snell).
E tuttavia, per lui, rimaneva importante, in ogni caso, salvare e ridefinire l’antica tradizione della sapienza e del sapere autentico.
Per il “giocoso Callimaco” la sapienza non era tanto la conoscenza assoluta del sommo Bene platonico – o la pretesa di disporre a piacimento di quel tipo di conoscenza, spesso all’origine di fanatismi, fondamentalismi, violenze e crudeltà, – ma consisteva in una via e uno stile cortese e delicato, come la sua poesia.
È interessante notare che, quando richiama i Sette Sapienti, personificazioni della vera saggezza per l’antica Grecia, Callimaco non mette in evidenza nessuna delle qualità, azioni, giudizi, usualmente celebrati nei tanti aneddoti che li riguardavano.
Egli è invece molto netto: i Sapienti solo tali in quanto non sono vanitosi, è questo il marchio del vero sapere e della vera saggezza.
Infatti, quando nei suoi Giambi, Callimaco porta in scena i Sette Sapienti per illustrare questa sua tesi, egli narra la storia dell’arcade Baticle, che morendo lasciò una tazza d’oro da assegnare all’uomo più saggio. Suo figlio, allora, la offrì, in giro, ai Sette Sapienti. Però, ognuno di essi rispose che, non lui, ma il vicino era il più saggio di tutti. Finché, da ultimo,Talete, essendogli stata offerta la tazza per la seconda volta, rifiutandola di nuovo, la consacrò ad Apollo.
Evidentemente, nota Bruno Snell (La cultura greca e le origini del pensiero europeo), Callimaco ha sicuramente presente, nel raccontare questa storia, i contrasti e lo spirito litigioso che caratterizzavano gli studiosi alessandrini, nel loro esibirsi sul palcoscenico di un centro importante come Alessandria d’Egitto, alla ricerca del successo, o dell’audience diremmo oggi, più che alla ricerca della verità delle cose o alla elaborazione di teorie valide.
Ciò che Callimaco vede nelle dispute dei dotti del tempo, somiglia molto a ciò che vediamo pure noi oggi: non il fatto, pur naturale e positivo, che ognuno di loro tiene alle proprie convinzioni e al proprio sapere. ma soltanto vanità e presunzione. Un primato della vanità, che, in un clima di post-verità,
si trasforma fatalmente in un vero e proprio disgusto del vero (Claudine Tiercelin).
È evidente che qui “vanità” non va letta tanto come una dimensione “morale“, come quando ci si riferisce alla vanità nell’aspetto, nell’abbigliamento o relativamente alle convenzioni sociali esteriori.
Dal momento che la “questione della vanità” è connessa alla sapienza e al sapere, si tratta piuttosto di un atteggiamento mentale, di uno stile epistemologico, di un carattere per così dire strutturale che definisce il sapiente. e il metodo del sapiente in quanto tali.
Ebbene, “il gioco variato e brioso” di Callimaco – fatto di autoironia, di nascondimento, di indovinelli e domande, piuttosto che di sentenze arroganti e supponenti, poteva rappresentare una via per la saggezza e una strada per la salvezza in tempi di stanchezza post-filosofica. Allora come oggi.
Il vero pericolo, per Callimaco, – e come dargli torto – viene da coloro che, “senza essere ispirati da alcuna missione oggettiva, sono tuttavia abbastanza astuti e calcolatori da saper vivere sull’effetto”.
Alla fine, forse si tratta solo di accettare, con “il giocoso Callimaco“, che sapienza è semplicemente cultura e buon gusto.
Una via leggera, cortese e mai vanitosa.