Mi chiamano natura e sono tutta arte
Qualcosa non va nel nostro rapporto con la “natura”. Qualcosa non funziona più. La nostra conoscenza della physis, e il tipo di rapporto che abbiamo stabilito con essa, non aiuta più, noi esseri naturali, a crescere insieme.
Sì, perché è il tipo di atteggiamento che instauriamo con la natura/physis, che determina anche la conoscenza che abbiamo di essa, e quindi di noi stessi.
Ebbene, possiamo comprendere meglio ciò che non va, se rammentiamo l’idea di Paul Claudel, secondo cui la conoscenza (connaissance) è essenzialmente co-nascita, (co-naissance) crescita simultanea degli esseri nell’unità della physis, intesa appunto come crescita e nascita (Paul Claudel, Ars poetica).
In effetti, il termine greco physis, secondo un’antica tradizione esegetica che viene ripresa nel 900 da Heidegger, nota Pierre Hadot, designa “l’erigersi nell’atto di schiudersi”, e quindi l’azione dello sbocciare, dello schiudersi, dell‘emergere, del crescere.
Ecco il punto, un approccio alla “natura”, o una “conoscenza”, che non ci facesse nascere e crescere insieme, sarebbe solo una conoscenza superficiale, incompiuta, frammentata e, a lungo andare, disgregante.
Abbiamo probabilmente dimenticato qualcosa di importante; sembra infatti che abbiamo perso la capacità di quella percezione corretta e autentica della natura, di cui parlava Lucrezio, quando scriveva che una percezione pura dela physis consiste nel riuscire a guardare sempre, il mondo e le cose, come se le vedessimo per la prima volta.
Insomma, a quanto pare, abbiamo impoverito il nostro approccio alla natura, e quindi il nostro rapporto con noi stessi.
Per questo, pur se le nostre conoscenze ci danno risultati in tanti settori, qualcosa di essenziale è andato perduto. Perdita, di cui ci rendiamo conto, talora in modo angoscioso, nei momenti in cui è la natura stessa, con la sua imprevedibilità, a sorprenderci e traumatizzarci.
È a questa perdita, a questa mancanza, e alla conseguente frammentazione della physis e dell’esperienza, che si riferiva Cézanne, quando chiedeva: “Perché dividiamo il mondo? È il nostro egoismo che vi si riflette? Vogliamo tutto a nostro uso”.
Sî, perché ci siamo, tutti, talmente abituati a percepire la natura, il mondo e le cose, solo “da un punto di vista utilitario, o strumentale, selezionando solo ciò che pertiene alla nostra azione sulle cose, da diventare ormai incapaci di vedere le cose per come esse appaiono davvero, nella loro realtà e unità“.(Pierre Hadot, Il velo di Iside, Einaudi)
Difficile capire perché è accaduto e sta accadendo tutto questo. Che cosa ha prodotto nell’immaginario collettivo una paradossale separazione dell’uomo dalla natura, che si è manifestata, sì, come maturazione, ma anche come angoscia.
Un’angoscia a scoppio ritardato, secondo la tesi dello storico della scienza Robert Lenoble (Storia dell’idea di natura, Guida ed.), condivisa da Pierre Hadot. Infatti, egli scrive, solo a poco a poco ci si è resi conto, a partire dalla fine del Settecento in poi, di una forma di maturazione e stravolgimento allo stesso tempo, della condizione umana, provocata dalla rivoluzione meccanicistica prima, e da quella industriale poi.
Solo gradualmente, man mano che si prendeva coscienza di questo allontanamento dalla physis, si è sentito il bisogno di cercare un diverso contatto con essa.
Infatti, ci siamo resi conto che per un corretto rapporto con la natura non basta la strada della percezione quotidiana. Questa, che pur ci coinvolge tutti, è basata sulle nostre abitudini e sulla direzione dei nostri interessi. Tuttavia, nella nostra percezione quotidiana, perlopiù, noi teniamo conto solo di ciò che è utile. Come scrive Pierre Hadot, noi ignoriamo per esempio le stelle, “non prendiamo nemmeno in considerazione il mare e la campagna, o al limite ne facciamo luogo di riposo, se viviamo in città, o di lavoro se di mestiere facciamo i marinai o i contadini”.
Tuttavia, non è sufficiente, per questo diverso rapporto con la natura, nemmeno la percezione che ci deriva dalla conoscenza scientifica, che pur si contrappone al mondo della percezione abituale. Infatti, ha ragione Pierre Hadot quando nota che “la rivoluzione copernicana ha trasformato il discorso teorico degli scienziati e dei filosofi, ma non ha cambiato nulla della loro esperienza vissuta”.
Husserl e Merleau-Ponty hanno dimostrato infatti che per la nostra esperienza vissuta, non c’è stata alcuna rivoluzione copernicana.
È il caso di ricordare allora che al distorto mondo della percezione quotidiana della natura, si contrappone, oltre alla percezione scientifica, anche il mondo della percezione estetica, nella misura in cui, scrive Pierre Hadot, l’arte potrebbe essere considerata anch’essa una forma di rapporto e di conoscenza della natura,
“Contemplare l’universo con occhi da artista“, diceva Bergson, può essere una forma di conoscenza che intensifica e arricchisce il nostro rapporto con la natura.
Il punto di vista dell’artista vede le cose per come esse sono e non più per come esse “sono per noi”.
Si tratta di non percepire più “soltanto in vista dell’agire“, ma di percepire le cose “per percepire, per null’altro, per puro piacere”.
Siamo ancora capaci di questa forma di percezione, che è anche, perché no, una forma di conoscenza? Oppure siamo condannati all’avvilimento prodotto dall’abitudine e dall’interesse“?
La filosofia, diceva Merleau-Ponty, e la vera saggezza consiste nell’imparare daccapo a vedere il mondo e la natura.
Dovremmo impararlo daccapo, tutti, uomini e donne comuni, filosofi, scienziati della natura, religiosi, politici, imprenditori e produttori, educatori, operatori dell’informazione, giovani e anziani, ma anche, poeti e artisti, anche se per questi dovrebbe essere forse più facile!
Probabilmente se ci si limita a gridare: “natura natura”, “ambiente“, “crisi climatica“, “salvare il pianeta“, ecc., senza un vero cambio di atteggiamento individuale, che non è solo razionale o politico, o scientifico, ma anche emotivo e affettivo, non andremo molto lontano.
Ebbene, “la percezione estetica comporta sempre un elemento affettivo, di piacere, ammirazione, entusiasmo o anche terrore a volte. Riconoscere un valore proprio all’approccio estetico alla physis/natura significa necessariamente introdurre anche nel rapporto tra l’uomo e la natura “un elemento affettivo, sentimentale o irrazionale” (P. Hadot).
Possiamo fare a meno di questa esperienza “affettiva“ che invade l’essere intero e che ci consente di sentirci una parte del Tutto?. Non è oggi il momento di pensare che tale atteggiamento può (e deve) coesistere con i metodi limpidi e razionali, come avveniva già in Goethe? Del resto, notava Norbert Elias, la ragione umana non è solo una macchina, ma anche sentimento.
Non è forse vero, che la natura stessa – come scriveva Paul Valéry – si comporta da artista?, e, “a modo suo, non fa lo stesso con i suoi giochi, quando prodiga, trasforma, inabissa, dimentica e ritrova tante chance e figure della vita, nel mezzo dei raggi e degli atomi in cui si gonfia e si ingarbuglia tutto il possibile e l’inconcepibile ?”
Il razionale, e saggio, Voltaire condivideva e invitava forse a un atteggiamento analogo, quando, alla voce “Natura” del Dizionario filosofico, immaginava la Natura che, rivolta a un bambino, gli dice di sé: “vuoi che ti dica la verità povero bimbo? Il fatto è che mi è stato dato un nome che non mi appartiene: mi chiamano natura e sono tutta arte“.