L'uomo abita la Casa dello Specchio
È un grosso handicap della Modernità occidentale, il fatto che le parole siano diventate solo oggetti tecnici, in ossequio pedissequo alla oggettività e alla positività scientifica.
In conseguenza di quest’approccio, le parole, tutte le parole, scrive Pierre Legendre, non diventano altro che un media portatore di informazioni, sono solo degli “oggetti” utili, e non considerate invece “come facenti corpo con il corpo” dell’uomo.
Del resto, il corpo stesso, “l’animalità dell’uomo, non viene considerato, salvo che dalle arti, come avente anche statuto di discorso”.
Tutto questo ha anche a che fare con il problema dell’identità e il processo di identificazione.
In effetti, qualcosa non va nel modo in cui in Occidente ci si identifica: perché, nota ancora Legendre, “per l’Occidentale, l’apprensione di se stesso, della propria animalità, la differenziazione della specie sono accostate tramite la strada di un oggettivismo freddo“.
Purtroppo, tutta l’antropologia moderna, almeno fino a Freud, e il suo concetto di inconscio, si interroga prevalentemente solo a partire dal suddetto approccio riduttivo. (Pierre Legendre, L’Occidente invisibile, Medusa ed.)
Era stato già Jean-Luc Marion, a sottolineare che la modernità è caratterizzata da un’equivalenza fondamentale: “Io significa Io”, attraverso l’intermediario immediato della coscienza di sé. A questa Fichte fece seguire l’altra equivalenza: “Io=Io come A=A”.
La questione però è che la coscienza di sé è qualcosa di meno immediato di quanto sembra, dal momento che essa si costruisce solo attraverso lo Specchio del linguaggio.
E lo Specchio, lo sappiamo, lega e separa al tempo stesso il soggetto, scoprendo sempre una zona d’ombra, un’area oscura all’interno dell’interiorità dell’io. È per questo che il principio di identità dell’Io, così fortemente enunciato da Fichte, dopo Cartesio, come costitutivo dell’individuo moderno, risulta in realtà molto più problematico di quanto siamo soliti pensare.
Sarebbe il caso, invece, di ripensare “l’animale parlante”, è questo l’uomo, “non come un essere indiviso socializzato”, un essere tutto di un blocco, alla maniera aristotelica, ma come un essere diviso proprio dal linguaggio, “un essere separato da sé e dal mondo”, che a un tempo è “unificato” (montato) da quegli stessi legami di linguaggio, altrettanto costitutivi di ciò che chiamiamo società, cultura, civiltà“, senza che tuttavia quei legami rischiarino la zona oscura interna all’io.
Sarebbe il caso allora di chiedersi: “Cos’è la vita per l’uomo, come si costruisce il suo legame con la realtà, e cos’è la presenza del mondo e dell’uomo nel mondo, allorché si tratta di un universo costruito con le parole?”.
“L’Ideologia moderna, sostiene Pierre Legendre, riduce il linguaggio allo statuto di portatore di informazione, di strumento di comunicazione tra individui liberi nei loro pensieri e trasparenti a se stessi, che sanno ciò che dicono e che, liberati dalle tradizioni, sono liberi dei loro legami nei confronti della società, della cultura, del mondo”. Ma è davvero così?
Si tratta invece, secondo Legendre, di prendere atto dell’esistenza di uno scarto, di uno “iato“, di un’incomprensione al cuore del rapporto dell’individuo con se stesso, come pure della disarmonia nella relazione tra interlocutori, evidenziando l’idea fondamentale che il legame è dipendente da una logica che sfugge alla libera disposizione.
Se ci immergiamo nell’universo letterario, suggerisce Pierre Legendre, possiamo capire meglio di cosa si parla qui. Pensiamo, per esempio, a Lewis Carroll e al suo Attraverso lo specchio; o ad Arthur Rimbaud e alla sua nota formula “Io è un altro“; o alle Confessioni di una maschera di Yuki Mishima; o ancora a Le metamorfosi di Ovidio, con il suo racconto che traduce il mito di Narciso. Tutte esemplificazioni dell’esperienza dell’uomo come essere diviso in se stesso dal linguaggio, e nello stesso tempo, legato, “montato“, dal linguaggio stesso, ma come attraverso uno specchio.
Sì, perché forse la strada più sicura per indagare l’uomo, la via più vicina a quelle vere e proprie “quinte teatrali“, sempre in parte oscure, dell’identità umana, è quella delle arti, in particolare la poesia e la mitologia, annota Pierre Legendre; come non essere d’accordo?
Attraverso quell’immersione nell’universo letterario, infatti, siamo aiutati a capire che l’uomo abita la Casa dello Specchio (Carroll), o secondo un testo della Bibbia, “l’uomo cammina nell’immagine”, cioè “l’uomo vive avendo a che fare con la teatralizzazione del suo essere e dell’essere del mondo tramite le immagini e tramite le parole”
Insomma, se torniamo alla classica domanda: che cos’è “l’animale parlante”, potremmo tentare una risposta, ribadendo che l’animale parlante è l’animale diviso dal linguaggio in se stesso – perché non può vedersi o pensarsi al di fuori della rappresentazione, che lo sdoppia; ma è anche legato dal linguaggio, perché il vincolo del linguaggio-rappresentazione, lo istituisce, e perciò egli è anche l’animale istituito dalla divisione del linguaggio e dalla rappresentazione.
In effetti, solo tramite i segni, quindi tramite la dimensione della finzione (nessuna connotazione negativa per questo termine, che sta per parole, segni, rappresentazione, cultura, saperi), noi umani mettiamo in scena il corpo e il mondo, operando in realtà una “smaterializzazione della materialità”, e al tempo stesso una smaterializzazione del corpo assunto nel linguaggio. Dal momento che possiamo pensare e assumere il corpo solo con il linguaggio!
Possiamo capire così, perché, come la divisione delle parole e delle cose è interna al linguaggio, anche la divisione tra il soma e la psiche è interna al linguaggio.
È in questo senso, dice Pierre Legendre, che l’animale parlante (l’uomo) è istituito, cioè è “dato” nel “come se” del segno, del linguaggio, è dato cioè dalla inevitabile dimensione della finzione.
Occorre perciò essere consapevoli che, da un punto di vista antropologico, il corpo è iscritto nel linguaggio: cioè, quando abbiamo a che fare con l’uomo intero, si tratta sempre di una forma di raddoppiamento del corpo attraverso la parola.
È in questo senso che la materialità del corpo è sempre, per così dire, abolita, poiché essa è presa in carico, come immagine, come immagine “istituita”.
Il corpo quindi è sì oggetto del sapere scientifico ma, nello stesso tempo, in quanto oggetto della vita della rappresentazione, esso appartiene anche alla logica della rappresentazione.
Per questo, “Il sapere sul metabolismo e i processi biochimici del cervello non portano alcun chiarimento sul pensiero, sull’estetica o l’etica“.
Qualcosa di analogo sosteneva il matematico e filosofo Wittgenstein, non solo quando si riferiva al “mistico“, ma quando scriveva che le “teorie” scientifiche sono solo giochi linguistici, tra altri, sono “griglie” che noi imponiamo al reale.
Insomma, tutta la cultura, nei suoi vari ambiti, presenta il mondo come lo Specchio mostra e presenta al soggetto la sua immagine. Tutta “la cultura presenta, mostra il mondo e l’uomo nel mondo, attraverso discorsi mitologici, religiosi, anche se, ai nostri giorni, a dominante scientifica“. Anche se non è mai possibile cancellare l’elaborazione mitologica alle spalle delle costruzioni moderne, e dei “montaggi” successivi.