Diario di un politico del Seicento
La vera grande arte è quella di governare gli uomini.
Il valore di questa antica sentenza si impone con evidenza alla mente di un politico del seicento. Un periodo peraltro nel quale si consolida la fase matura del nuovo stato moderno.
Questo fatto spiega il desiderio di appropriarsi delle conoscenze, delle abilità e delle competenze necessarie a un politico. A prescindere dalle motivazioni, quali la ricerca della carriera, la corsa al potere o il servizio dello Stato, che potevano spingere verso l’impegno politico, in quei tempi.
Ad “istruire” i politici mira appunto il Breviario dei Politici, opera attribuita all’ispirazione di Mazzarino.
Ed è senz’altro interessante e intricante, ancora oggi, addentrarsi nella mente del politico autore del Breviario, navigando tra istruzioni e consigli che egli offre a se stesso e a chiunque svolga la funzione politica, sia che lo faccia per scelta che per condizione sociale.
Del resto è ugualmente illuminante e intricante per noi tentare di specchiarci, analizzando i pensieri del politico autore del Breviario, in un periodo storico come il seicento che pur lontano nel tempo si rivela, a ben guardare, per molti aspetti, a noi vicino e familiare.
Già nella dichiarazione di intenti il progetto dell’autore appare molto significativo e illuminante. Infatti le massime fondamentali a cui, secondo il Breviario, “i Politici riducono la loro professione” sono due: “Simula” e “Dissimula”. Queste due massime però, a loro volta, sono “sostenute”, cioè si reggono su altre due: “Conosci te stesso” e “Conosci parimenti gli altri”.
Sulla base di questi “fondamenti”, il Breviario, come un diario, descrive, pur senza un ordine rigido, – “alla rinfusa, così come accadono” – varie azioni politiche, anzi umane, perché per l’autore “tutto è politico in quanto tutto è umano”, come nota Giovanni Macchia nella sua preziosa introduzione-commento, all’edizione rizzoliana dell’opera.
Certo, potrebbero far arricciare il naso a qualche “anima candida” i due imperativi “simula””e “dissimula” posti a “fondamento di tutta l’Opera”, ma per noi cresciuti e beatamente pasciuti in una società in cui tutto è spettacolo e marketing, la scelta del nostro politico-autore potrebbe anche apparire solo una “anticipazione”.
Del resto, il seicento, il secolo del barocco, “è stato il grande secolo della dissimulazione così come, in pittura, è stato il secolo dell’ombra, quale via che conduce alla luce, cioè alla conoscenza”.(Giovanni Macchia)
E quindi forse è vero che bisogna specchiarsi “nel secolo di Velasquez, il secolo di buffoni e nani, tanti quante ne dipinse lui, per comprendere anche le origini del pensiero politico moderno”.
Anche alcuni tratti dello stile politico contemporaneo, li possiamo forse intravvedere quando Velasquez immortala il crepuscolo del “secolo d’oro”, dove “in abiti tessuti finemente e di raro splendore albergano sovrani assenti, senza cenni di fierezza e incapaci di incutere soggezione: con gli occhi che trasmettono sentimenti di distacco indifferente al fluire del tempo e delle cose e sembrano chiedere comprensione”(Giovanni Santambrogio), o forse compassione?
In quegli sguardi che sembrano spegnere ogni loro slancio, non siamo prefigurati anche noi? Inconsapevoli “legionari del presente”, abitatori del tempo delle passioni tristi e cieche?
Non è vero che possiamo riconoscere in quei volti e in quelle scene di Velasquez, gli stessi miscugli di velleità e contraddizioni, di buio e sprazzi di luce, di nebbia e soli sbiaditi, che caratterizzano il nostro tempo così come il nostro stile di pensiero. O dovremmo dire la nostra incapacità di pensare?
Beh!, anche nella mente e nella vita di un politico del seicento, protagonista del Breviario, vengono alla luce i fatti, i pensieri, le frodi, le guerra e le catastrofi, ma anche le istanze di libertà, sensibilità, corporeità; come anche di invenzione, di fantasia, di sogno di trasformazione, di invenzioni, di desiderio di divenire altro o almeno apparire altro.
L’incertezza e il chiaroscuro, l’ombra e la luce, il simbolo, la simulazione e la dissimulazione, la retorica e la metafora, strutturano quei tempi, come anche la mente del politico di allora.
Il personaggio del Breviario dei politici fin da giovane appare “invasato” dal desiderio di far carriera e dalla brama del potere, è perciò uno che “non sta fermo un minuto”. Per questo è un giocatore oltre che politico, anzi politico perché abile giocatore. Si tratta di “dominare il giuoco come avrebbe poi dominato i sentimenti e gli affetti” (G.Macchia) suoi e soprattutto quelli degli altri.
Anche se, proprio perché “giocatore” ha una chiara consapevolezza che “per un politico i successi raggiunti e i progressi nella carriera fanno diventare più chiara la visione del baratro” e della caduta possibile. La consapevolezza infatti che il cammino del politico è sempre segnato da complessità, diversità e incertezza, non lo abbandona mai.
“Emerge dal Breviario un “politico che non ha nessuna fiducia nel metodo, nella teoria. Esalta il valore del presente, del contingente. La conquista del potere può nascere dal nulla” (Macchia).
Perciò è convinto che “la politica non è una scienza, è una conquista. Tutta la sua carriera è attraversata da questa convinzione. Egli non può smettere di essere anche un guerriero o un giocatore.
Sarà per questo che i politici (quelli impegnati nella ricerca del potere) non amano la letteratura, come pensa il politico autore delle massime? Il politico, a suo parere, deve essere abile nel “dire” e nel negoziare; tuttavia “al politico bisogna far leggere libri non di letteratura o di poesia o di filosofia che indagano le ragioni ultime delle cose, ma di matematica, di scienze, ove si studiano le leggi e i segreti della natura (Macchia).
In ogni caso, dietro le pagine del Breviario. si intravede ugualmente tutta la cultura dei politici di questo grande e affascinante secolo, al di là della loro durezza e mancanza di scrupoli, Perciò “la politica e la storia serpeggiano un po’ dappertutto in questo [Breviario dei politici] spaccato della società seicentesca, oscura, dolorosa, violenta, solcata dal grande baratro tra gli umili e i potenti, come ben sanno i lettori del Manzoni” (Macchia).
Acquista un senso preciso, per il nostro politico-autore, in un siffatto contesto, anche la scrittura, come bisogno di annotare e “annodare” pensieri ed esperienze. A cui um uomo d’azione di solito tende a sfuggire. Ma, qui, “nell’evolversi degli eventi, scrive Macchia, la penna serviva a dipanare i fili aggrovigliati nella cecità degli eventi stessi”, per dargli una direzione decifrabile, pur nell’estrema incertezza dei tempi e dell’orizzonte.
Quelli in cui vive, infatti, sono tempi duri, tempi di paura, in cui nulla è sicuro e tutto può mutare, perciò il politico deve avere sempre “l’occhio all’odio” anche nell’auge della fortuna; devi “conservare qualche pensiero per le disgrazie che potrebbero succederti”, consiglia a se stesso prima che agli altri politici.
Infatti la presenza del male è come un fuoco sotterraneo e minaccioso che brucia tra le massime del Breviario. Il politico si sente spesso “tra amici che non sono compagni, ma pubblici e maligni detrattori”. È consapevole che anche il popolo “è feroce e implacabile”. Quella consapevolezza diventa a volte amarezza: “non presumere di trovare benigni interpreti de’ tuoi operati, perché nel mondo ognun la prende nel senso peggiore”. Infatti “gli uomini non hanno flemma [ pazienza] di esaminare i discarichi, e tosto condannano gli altrui operati. Così porta la fatalità dei tempi d’oggi”.
Certo, quei tempi terribili impongono al politico una “forzata insensibilità“, ma quella stessa insensibilità tuttavia nasconde e rivela nello stesso tempo, come emerge dalle sue pagine, senso di abbandono e momenti di stanchezza.
L’amarezza e la stanchezza si tramutano spesso anche in malinconia, tratto anch’esso, caratteristico del secolo, come rivela la pittura di Velasquez. E nel Breviario la malinconia fa le sue evidenti pur se fugaci apparizioni, da cui traspare anche l’esperienza della solitudine del politico. Ha ragione Macchia, “dietro gli affari che lo assorbono c’è sempre un senso di vuoto, di scoramento”, che il politico cerca di coprire come può e come deve, forse. Infatti il suo consiglio è: “in somiglianti casi di malinconia, ingolfati nei maneggi [impegni], come per distrarti con un sollievo serioso e grave”.
E tuttavia, pure se gli uomini sono corrotti, il male cova come un fuoco sotterraneo, i tempi sono terribili e gli orizzonti incerti, questo non produce rifiuto dell’azione, anzi, “il politico come un vispo animale, come la volpe, inauguri il suo difficile gioco con la società che teme”.
In realtà, alla fine un punto è certo: egli sa che è “la società stessa che fa il politico; sono gli altri che gli impongono i modi nel fare, nell’agire”. “L’uomo è soltanto apparenza. Sono gli altri che gli daranno il suo volto, perché attraverso di sé e degli altri, in un rapporto continuo, snervante, massacrante, egli può agire, e agire appunto sugli altri”(Macchia).
Anche in questo, il politico è figlio della sua epoca. Infatti il 600 è anche il secolo del teatro. In quel secolo, il mondo stesso è un teatro e il teatro è il mondo.
Perciò “l’arte del politico è come una superiore arte dell’attore” (Macchia), qualcosa che noi oggi possiamo comprendere meglio, dal momento che sono sempre più numerosi ex attori che calcano la scena politica o guidano addirittura grandi Stati.
Ebbene il politico del seicento come l’autore del Breviario dei politici, è soprattutto un grande attore. Perciò come l’attore, il politico non deve fallire nell’arte e nella medicina della dissimulazione.
Come la metamorfosi fu un tema ricorrente del teatro barocco, così nella multiforme vita del politico moderno c’è la metamorfosi, necessaria come essa è necessaria in natura. La natura, scriveva proprio nel seicento, Torquato Accetto (filosofo e autore de La dissimulazione onesta) “ha voluto che nell’ordine dell’universo sia il giorno e la notte… nel giro dell’agire umano sia il procedere manifesto e nascosto, conforma alla ragione”. “Larvatus prodeo” suggeriva anche Descartes nello stesso secolo.
Perciò per il nostro politico, la diversità, la trasformazione, la metamorfosi, la dissimulazione, sono necessarie per la varietà dei casi che egli deve affrontare. Anzi, egli sa che “la stessa dissimulazione riesce a volte insufficiente per l’infinita contrastante varietà dei casi cui il politico è esposto”, come nota G.Macchia.
Il politico del seicento è un uomo sempre in ansia, e anche per questo la sua condizione è quella della “mobilità necessaria”, del comparire e dello scomparire, della dissimulazione, e dell’addestramento all’esercizio di metamorfosi e di metafore, secondo lo stile del secolo d’oro.