Una regressione linguistica?
Noi umani siamo le uniche creature capaci di pensare il nostro “dire” e di parlare del linguaggio che usiamo. Noi dovremmo aver acquisito l’abilità di meta-comunicare, cioè la capaci di dire “sto dicendo che…”.
È vero anche che a scuola, dice lo scrittore Marco Balzano, ci insegnano a scrivere (a parlare no!), ma “non ci dicono che le parole hanno corpo e si possono maneggiare”, con effetti imprevedibili, se lo si fa senza consapevolezza.
Ma come spiegare certe fasi della vita delle società, come quella in cui ci troviamo oggi, nelle quali le parole e i discorsi erompano come tsunami distruttivi, come eruzioni vulcaniche, senza che si capisca veramente “chi parla”, senza che si sia in grado di capire se le parole dette hanno davvero un soggetto, oppure sono esse stesse a gestire e travolgere i vari soggetti apparenti del discorso, come i vortici di un vento impazzito travolgono e trascinano verso tutte le direzioni la polvere del deserto?
Come spiegare quei fenomeni di cui è piena oggi la rete e in genere la comunicazione sia privata, che politica e pubblica? Come spiegare quei fenomeni in cui le parole e il linguaggio diventano come stracci al vento, e per giunta stracci sudici?
Come spiegare il diffondersi, come una pandemia, dell’uso violento, razzista, aggressivo o volgare del linguaggio; come spiegare il ricorso sistematico e cinico a parole di insulto e disprezzo verso avversari, o donne, o minoranze sociali, o anche verso luoghi e cose cariche di valori per altri? Come spiegare il metodico ricorso alle fake news anche da parte di organizzazioni e personaggi pubblici, oltre che da parte di privati cittadini, sulla rete e su altri mezzi di comunicazione? Quale ragione necessitante impone a giovani e adulti, sui social, di trasformare, ogni post in un insulto, in un rabbioso sfogo o in un elenco di parolacce rivolte a destra e a manca? E chi impone ad ognuno di noi di aggiungere anche un like a quei post o a condividerli addirittura?
Come spiegare queste distorsioni e questo degrado della parola?
Non credo che possiamo accontentarci qui di una spiegazione prevalentemente etica o politica dei suddetti fenomeni. Non credo che tali spiegazioni siano sufficienti. Non possiamo sempre imputare certi comportamenti solo alla cattiveria o alla mala educazione (di cui tra l’altro oggi neppure ci si vergogna più!) dei singoli individui o dei gruppi.
Sarebbe troppo facile. Non si può spiegare tutto con il ricorso all’etica.
D’altra parte il degrado dell’uso del linguaggio, quel ricorso continuo, consapevole o meno, al linguaggio violento, rabbioso, aggressivo, sprezzante, volgare, rivolto a persone, gruppi o cose, è oggi quasi una pratica di massa, troppo diffusa, in privato e in pubblico.
Ci dev’essere qualcos’altro in gioco.
Ecco, io vorrei azzardare una spiegazione inconsueta.
E vorrei cercarla proprio all’interno dei meccanismi e delle dinamiche del linguaggio, con cui tutti quei fenomeni, sopra ricordati hanno a che fare. Ci dev’essere qualcosa che, ogni tanto, smette di funzionare, proprio su piano del linguaggio, tra gli umani!
Vorrei riprendere per questo una tesi che il giovane Nietzsche elabora in alcuni saggi sul linguaggio, (composti più o meno negli stessi anni de La nascita della tragedia), in cui sostiene che “il linguaggio è troppo complicato per essere opera di un singolo individuo, troppo unitario per essere opera di una massa….Resta quindi solo da considerare il linguaggio come un prodotto dell’istinto” (L’origine del linguaggio; Linguaggio e verità).
Quindi, per Nietzsche, l’origine del linguaggio è nell’istinto, dal momento che la coscienza (che in genere si presume debba presiedere alla formulazione del linguaggio) semmai “arriva dopo e zoppicando”,
Nietzsche, che, tra l’altro, conosceva ed era interessato alle tesi darwiniane sull’evoluzionismo e l’origine delle specie, richiama anche l’opinione di Schelling secondo il quale poiché nessuna coscienza umana può essere concepita priva di linguaggio, non è possibile che a gettare il fondamento del linguaggio sia stata la coscienza.
Del resto, per arrivare ai tempi nostri, e scontando il fatto che relativamente alle questioni della natura del linguaggio verbale umano, della sua origine e delle fasi della sua evoluzione, sembra che siamo ancora in alto mare, con posizioni molto diverse e anche conflittuali tra studiosi e ricercatori (utili a tale riguardo le agili sintesi di F. Ferretti, Alle origini del linguaggio umano, Laterza; e I. Adornetti, Il linguaggio: origine ed evoluzione, Carocci), non abbiamo ragioni serie per non dare peso alle tesi di Nietzsche (delle quali è possibile peraltro trovare tracce anche nei dibattiti recenti). Nietzsche, del resto, riguardo alle dimensioni oscure e patologiche dell’esperienza, del pensiero e anche dei discorsi umani, la sapeva lunga! E noi qui stiamo parlando proprio del venire alla luce di dimensioni oscure e patologiche del comportamento linguistico degli esseri umani.
Ebbene, se all’origine del nostro “dire”, se nelle prime fasi del “passaggio” evolutivo alla condizione di “parlanti” non possiamo supporre una coscienza “sovrana”; se, in un certo senso, noi non abbiamo “determinato” il nostro parlare, ma siamo stati, per così dire, già “dentro un parlare”, allora potremmo spiegarci meglio quei fenomeni di degrado e quei “cortocircuiti” della comunicazione e del linguaggio, di cui si parlava all’inizio di questo post.
Se siamo “agiti” dalle parole e dal linguaggio come da un istinto che precede la coscienza (la quale, come scriveva Nietzsche, “arriva sempre dopo, zoppicando”, allora potremmo pensare che tanto il linguaggio dell’odio e dell’insulto, quanto l’imporsi delle fake news, e anche quel complesso di atteggiamenti che viene denominata post-verità, o altri fenomeni di degrado linguistico, non siano degli tsunami piombatici addosso da chissà dove o da chissà chi, ma semplicemente comportamenti “naturali”, che sono depositati ancora nel nostro archipallium o nel paleopallium, secondo lo schema di Paul McLean, o magari nell’inconscio individuale e collettivo, e che, in determinate condizioni storico-sociali, riemergono, pure se oggi le nuove tecnologie li potenziano, li amplificano e li mettono a disposizione di chiunque.
Alla fin fine, potremmo considerare i fenomeni di degrado linguistico di cui stiamo parlando, come forme di “regressione” a fasi primitive dell’emergere del linguaggio, una regressione analoga a quella di cui si parla in psicoanalisi, a proposito dei disturbi nello sviluppo dell’ego.
Insomma, si potrebbe trattare di una regressione a ciò che è avvenuto in quel periodo di circa sei milioni di anni che separano “l’uomo” dal suo cugino primate più vicino: quel periodo in cui si sono sviluppati lentamente organi ed abilità che hanno consentito lo sviluppo del linguaggio verbale umano completo.
O meglio, potrebbe trattarsi di una regressione a quella fase dello sviluppo del linguaggio umano, che sembra si sia verificata non molto tempo prima degli ultimi 100.000 anni. Fu allora che una piccola parte della popolazione della terra, quell’uomo “moderno” anatomicamente indistinguibile da noi, cioè la popolazione umana, conobbe un incredibile sviluppo e si diffuse poi su tutta la Terra. (Luigi Luca Cavalli Sforza).
È durante quella fase che si è realizzato lentamente il distacco dalla comunicazione e dal tipo di linguaggio di altri animali e dei primati. Lo sappiamo, infatti, che anche gli animali comunicano tra loro, come facevano alcuni cugini dell’uomo moderno come “l’uomo” di Neanderthal.
Ma sappiamo anche, come sottolinea la linguista Alison Wray che le vocalizzazioni animali devono essere considerate “manipolative” anziché referenziali: le scimmie non cercano di comunicare ai compagni informazioni su qualche entità del mondo circostante, piuttosto tentano semplicemente di condizionare il comportamento dei loro conspecifici. Tendono inconsapevolmente solo a suscitare una risposta emotiva nei riceventi, alterando in questo modo i loro comportamenti (Antonetti).
Perciò dare conto dell’origine del linguaggio umano che è, in senso proprio, linguaggio verbale, significa rilevare il passaggio dal gesto (dalla mano), ai simboli e all’astrattezza del codice verbale. Qualcosa ha permesso questo passaggio che ha cambiato radicalmente l’esperienza e il comportamento dell’uomo, così come ha aperto la strada all’apparire della coscienza, pur zoppicante, come scrive Nietzsche. Anche se non si conosce ancora bene di cosa si sia trattato, certo questo ha fatto nascere l’uomo parlante
Insomma ci dovrebbe essere una differenza fondamentale tra la comunicazione tra umani e quella tra non umani. Ma è così sempre? Quella regressione di cui abbiamo parlato sopra sembra riportare l’uomo parlante di oggi a una fase precedente il distacco dalla comunicazione tra animali e tra scimmie, sembra riportarci a prima del passaggio dal gesto (dalla mano) al simbolo.
Nel linguaggio animale così come in quello dei primati la mano e la manipolazione avevano un ruolo decisivo nella comunicazione, perché tendeva a trasporre soltanto una forza non una episteme.
Dobbiamo pensare dunque che chi usa il linguaggio e la parola come una clava stia ancora, o ritorni, alle prime fasi dell’origine del linguaggio? A quando cioè il passaggio dalla natura meccanica e determinata dei segnali animali, vincolati al qui e ora e incapaci di astrattezza tipica dell’espressione simbolica, non era ancora avvenuto? A quando la comunicazione non si era ancora spostata nell’ambito della comunicazione verbale, non aveva ancora operato il passaggio dal caos e dalla cecità dell’istinto alla dimensione simbolica, alla dimensione di soggetti culturali?
Insomma ci troveremmo, in questo caso, di fronte al riemergere di una specie di proto-linguaggio, anche se oggi esso è potenziato da potenti tecnologie?