La santa ignoranza
Chi potrebbe calcolare quanto abbiamo perso, noi italiani, con l’abolizione delle facoltà di teologia nelle università, operata dallo Stato unitario negli anni settanta dell’800? E quale impoverimento culturale ha prodotto quella decisione, frutto di un ideologico e miope anticlericalismo?
Per quale motivo, grandi e prestigiose università americane come Yale o Harvard o importanti università pubbliche europee, inglesi, tedesche, austriache, ecc., offrono corsi o facoltà di teologia, mentre in Italia la semplice idea di una presenza di tali corsi di studi all’interno delle università è considerata, come minimo, stravagante?
Perché ad Harvard, per esempio, un laureato in matematica o in fisica può considerare “normale” prendere anche una laurea in teologia, mentre in Italia apparirebbe quasi fuori di testa?
Sono anacronistici quei grandi Paesi dell’America e dell’Europa, o sono i nostri ambienti accademici italiani dominati da stantii clichés, come nota Zizek (Credere, Meltemi)?
Mi ronzavano per la mente domande del genere, mentre leggevo con interesse le pagine di Il Regno e il Giardino, di Giorgio Agamben (Neri Pozza ed.), un’opera che potremmo definire di filosofia politica, ma con una riflessione importante sullo statuto della natura umana. Una argomentazione, quella proposta dal laico Agamben, costruita attraverso un percorso nella storia della teologia cristiana occidentale. Ma, del resto, anche altri saggi importanti di Agamben, ricorrono in più punti a concetti e categorie della teologia cristiana.
Ebbene, mi chiedevo, come sarebbe possibile decodificare compiutamente saggi importanti come questo, senza avere nessuna conoscenza della teologia o delle teologie cristiane?
Il problema, che giustifica le domande di partenza di questo post, si ripresenta anche a proposito di altre opere, di altri pensatori, molti di loro assolutamente laici o anche atei.
Infatti, per fare altri esempi e fermandoci solo ad alcuni autori contemporanei, come cogliere punti centrali del pensiero significativo, originale e spesso decisivo per comprendere la condizione umana attuale, di autori come Slavoj Zizek, o Derrida, o Jean-Luc Nancy, o lo stesso Lacan, o Carl Schmitt o François Jullien, o Sloterdijk e anche Heidegger, senza poter disporre di categorie e nozioni del discorso teologico?
Perché siamo stati privati e ci priviamo ancora di una tradizione culturale e di strutture intellettuali, che non sono patrimonio esclusivo dei fedeli di questa o quell’altra fede religiosa, ma, come dimostrano gli esempi fatti – e altri se ne potrebbero fare – hanno a che fare con l’interpretazione della nostra condizione umana attuale, oltre che con la nostra memoria collettiva?
Insomma, quell’inopportuna abolizione ha privato tutti noi di un “software” essenziale, per decifrare la nostra esistenza e il nostro mondo. Dal momento che una malintesa “modernizzazione” ha impoverito, anziché arricchire, la nostra intelligenza del mondo. Ha ristretto i nostri orizzonti, invece di liberarli e allargarli!
Questa particolare situazione italiana ha rappresentato e rappresenta un limite enorme nella misura in cui ha favorito una diffusa ignoranza teologica e, perciò, culturale, che non giova né ai laici, né a chi segue una fede religiosa.
Se il mondo laico considera la teologia non una tradizione centrale nello sviluppo del pensiero occidentale, ma solo un sapere “minore” o addirittura una semplice estensione del potere ecclesiastico, i danni sono evidenti per tutti. E che questa sia una condizione tipica dell’Italia (solo la Francia sembra essere in una situazione analoga, per motivi in parte diversi) dovrebbe far pensare.
Certo questa situazione sembra ricevere un paradossale avallo da parte degli stessi credenti. Se è vero quanto sostiene Oliver Roy, secondo cui, tra i seguaci delle grandi religioni, oggi, si va diffondendo una “postmoderna” indifferenza verso la teologia a vantaggio della “fede” intesa essenzialmente come “vissuto”.
In questo caso l’ignoranza ha la pretesa di diventare “santa” e insidiosamente “moderna” (La santa ignoranza, Feltrinelli). Per cui, per esempio e tra l’altro, l’originario rapporto tra cristianesimo e cultura appartenente al DNA della fede cristiana (che è stata fin dall’inizio sempre una “fede pensata”), rischia di diventare sempre più problematico e precario, nella misura in cui anche per i “praticanti” il “vissuto” della fede, il primato del “sentire”, contro la cultura e il “logos”, sembra spingere ai margini, fino all’insignificanza, la teo-logia!