Il caso serio del linguaggio
Cosa rischiamo nel passaggio dal “politichese” a un tipo di gergo che si potrebbe chiamare “populese”?
Infatti il progressivo impoverimento linguistico che riguarda sia la comunicazione privata che quella pubblica sta diventando davvero una questione urgente.
Lasciatemi condividere, a tale proposito, un’esperienza che penso facciate anche molti di voi.
Una volta, qualche decennio fa, quando ci si sedeva nel salone di un barbiere, o ai tavolini di un bar (o in altri posti simili), sembrava relativamente facile, ascoltando le “quattro chiacchiere” che si fanno di solito in quel tipo di locali per passare il tempo, indovinare, dal modo di parlare, dai vocaboli usati o dal tono dell’argomentare, chi ci si trovava di fronte.
Insomma, era facile ipotizzare: “ah, questo che parla dev’essere un professore; quello un medico; quell’altro un operaio; quello, forse, un politico e questo sicuramente un prete, anche se non indossa l’abito talare; quell’altro potrebbe essere invece un ingegnere o qualcosa del genere, a sentire quello che dice; questo più giovane sarà uno studente universitario; questo qui, invece che parla poco ma dice cose semplici e sensate dev’essere probabilmente un contadino.
Una volta era così. Ma adesso?
Provate a verificare. Riuscireste a capire se, colui che parla, è un professionista, un lettore di libri come un professore, un medico o un ingegnere abituati ad argomentazioni tecniche e precise, oppure un contadino, un operaio, un prete o un politico?
Io non ci riesco più, e penso che neppure la maggior parte di voi potrebbero superare questo semplice “esame”!
Cosa è accaduto? Cosa ci sta succedendo?
In effetti, il fenomeno di cui parlo, facilmente verificabile, rivela molti limiti evidenti del nostro linguaggio, quando affrontiamo discorsi in pubblico.
Come, per esempio, il carattere monotematico dei nostri dibattiti quotidiani, come se qualcuno avesse deciso, per noi, l’argomento su cui esercitarci ogni giorno, quasi fosse la “traccia” di un tema assegnato. Oppure il carattere stereotipato e quasi “omologato” dei nostri discorsi, come se il “copione” di quello che andiamo dicendo fosse già stato scritto, e dovesse essere solo correttamente recitato da noi, in quanto replicanti o cloni di un soggetto unico virtuale.
Tuttavia, a questi limiti, già gravi di per sé, del nostro modo di parlare e dialogare in pubblico oggi, si deve aggiungere anche l’uniformità del linguaggio e dei toni (quasi sempre aggressivi e tendenti alla rozzezza, per altro) del nostro parlare, come se usassimo tutti una forma di “gergo” o di “slang”.
Una volta si era soliti rimproverare i politici per il loro uso del “politichese”, un gergo difficilmente comprensibile dalla maggioranza dei cittadini, oggi si potrebbe dire che viene usato da tutti, politici e cittadini, indifferentemente, un altro tipo di slang, che potremmo chiamare il “populese”, che sembra comprensibile da tutti, perché utilizza pochissimi vocaboli, ma è ancora meno significativo del politichese, perché in realtà non “dice” niente, ma manipola (o mobilita) solo emozioni. È un linguaggio costituito soltanto da “parole d’ordine”, da “slogan”, configurabili necessariamente in frasi brevi, fatte di parole che sembrano ovvie, semplici e primitive.
Questo tipo di linguaggio deve necessariamente essere povero di vocaboli: non servono molte parole diverse infatti (altro che “vocabolario di base” dei linguisti!) per costruire discorsi anche della durata di ore!
Ecco perché oggi è difficilmente superabile quell’esame, di cui si parlava sopra, mirante a capire, dal modo di parlare chi abbiamo di fronte. Proprio perché quel modo di parlare e di comunicare si va generalizzando, dai talk show televisivi, ai tg, alle esternazioni “sincopate, dei politici…ai saloni dei barbieri, appunto.
Insomma, il caso serio del linguaggio, oggi, è la tendenza al linguaggio unificato che si presenta come linguaggio popolare, semplice, “naturale”, apparentemente “democratico”. Un linguaggio che ha anche una paradossale presunzione di verità perché la ripetizione ossessiva di quei pochi vocaboli, ogni ora e ogni giorno sembra farlo diventare vero!
Il guaio è che il linguaggio unificato significa vocabolario limitato e impoverito, quindi pensiero povero, e, alla fine, pensiero unico!
Rimane sempre valida infatti l’intuizione di Wittgenstein, secondo cui, “i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”.
Il linguaggio è la precondizione del pensiero. Se l’universo è diverso e molteplice, l’incapacità di nominare le cose in modi diversi e molteplici, si tradurrà nell’incapacità di pensare le cose stesse, e alla fine anche nell’impossibilità di pensare, semplicemente!