Quelle voci dagli abissi del passato
Le notizie relative alla distruzione delle tracce del passato remoto dell’umanità, di cui si è sentito parlare in questi giorni e nei mesi scorsi, danno senz’altro da pensare.
Certo, quel furore iconoclasta e quella mania distruttrice del patrimonio culturale e storico – un “genocidio culturale“, come lo ha definito Ban Ki-moon – è l’espressione del tentativo di annientare l’identità di minoranze religiose, culturali o nazionali. Ma non è solo questo. E neppure si tratta solo del bisogno di dimostrare e imporre la propria forza e il proprio potere sui territori conquistati. Nè solo della necessità di richiamare su di sè l’attenzione dei media e del mondo con atti sicuramente eclatanti e scioccanti. Neppure, credo, sia sufficiente considerare anche il venale bisogno di ricavare vantaggi economici – si dice 500 milioni di dollari l’anno! – dal “traffico di antichità” e dalla vendita di frammenti e reperti millenari.
No. Ho l’impressione che, in realtà, siamo di fronte anche a qualcos’altro di più radicale, antropologicamente significativo, e molto preoccupante, dal momento che fenomeni del genere si ripresentano periodicamente nella storia umana.
Infatti, penso che questi fenomeni abbiamo soprattutto a che fare con il rifiuto umano, in questi casi ostentato con violenza, di lasciarsi guardare e giudicare da un occhio assolutamente diverso, del tutto diverso, un punto di osservazione assolutamente “altro”. Come quello di “documenti” (siano essi testi, monumenti, testimonianze, siti,) molto “antichi”, “lontani”, irriducibili a noi. Non assimilabili alle proprie convenienze e al proprio presente. Documenti che parlano dall’abisso di un passato, a volte plurimillenario, e perciò percepito come oscuro, “estraneo”, importuno, disturbante o inquietante.
Se è così, occorre pure aggiungere che questo atteggiamento non è né insolito, né frutto solo di barbarie. Ma, è un’altra modalità di quella “banalità del male”, troppo comune ed usuale, per poter davvero essere messa distintamente a fuoco!
Sì, dal momento che esistono, nella storia di oggi e di ieri, molte forme del suddetto atteggiamento di rifiuto. Messe in atto anche da gente molto “normale”. Da gente, direi, “umana, troppo umana”!
Infatti, si può voler cancellare le tracce di un lontano passato per puro vandalismo distruttivo. Oppure per imporre con forza agli altri la propria fede, le proprie credenze, le proprie idee, o il proprio potere. Si può credere che il proprio “sapere” e la propria “scienza” abbiano più diritto di esistenza e di sopravvivenza. Si possono ritenere fuori dalla storia, anacronistiche, senza significato e inutili, tracce, documenti, testi di un lontano passato. Si può desiderare di togliere cittadinanza a documenti, testi o tracce che, abbiamo deciso, non avrebbero più nulla da dire. Poi c’è anche “l’aggravante”, a parere di molti, che quasi tutte quelle tracce, quei documenti, quei testi, hanno a che fare con un significato religioso, dal momento che i documenti all’origine di ogni cultura e civiltà sono nati per lo più in un contesto religioso. Insomma, i motivi e le forme di quell’atteggiamento possono essere tanti, senza necessariamente assumere modalità violente.
Il fatto è che noi tutti siamo spinti a credere che la distanza e l’abisso che ci separano da quelle tracce, da quei monumenti, da quei testi, ci autorizzino a zittire quelle voci come inutili ed estranee.
E invece, è proprio quella distanza che dovrebbe sedurci. Anzi, maggiore è la distanza più dovremmo sentirci attratti e “interpellati“. C’è qualcosa di intrigante e affascinante nei testi molto antichi, scrive Peter Brown. Perché, con tutti gli altri testi e documenti più vicini e più “simili” a noi, con quelli che sembrano parlare una lingua familiare, con quelli che ci sembrano “attuali“, in realtà, noi – spesso – giriamo su noi stessi. Invece, con quelli dai quali ci separa un “abisso“…no…quelli ci portano altrove, ci costringono, se gli diamo voce e ci lasciamo giudicare da essi, a guardarci da “un altrove”.
E noi, oggi più di ieri, abbiamo bisogno di quei testi, di quei documenti, di quelle voci! Proprio perché sono voci provenienti da epoche apparentemente “indifferenti” alle nostre preoccupazioni e ai nostri interessi di oggi. E quindi sono voci che ci costringono a estraniarci da noi stessi, ci guidano in terre straniere, ci insegnano altre lingue, ci accompagnano in esperienze di straniamento che sono sempre un vero percorso di formazione e riscoperta di sé.
Non è forse vero che “vi sono momenti, nella vita, in cui la questione di sapere se si può pensare e vedere in modo diverso da quello in cui si pensa e si vede, è indispensabile per continuare a guardare o a riflettere”(M. Foucault)?
2 commenti
Anonimo
Complimenti! Il passato è l'altro nome delle nostre radici. Serve per farci respirare e vivere.
Anonimo
Grazie Giuseppe. Soprattutto perché il lontano passato ci costringe a guardarci da angolazioni inconsuete!