Figli dell'assenza
Le coincidenze della vita, talvolta, sono veramente strane!
In un periodo in cui sono indotto a sperimentare, per più di un motivo, e in una forma nuova e insolitamente intensa, il sentimento dell’assenza, due incontri mi hanno consentito di elaborare in parte quel sentimento e hanno prodotto in me riflessioni che, immagino, potrebbero interessare anche i pazienti lettori di questo blog.
Due incontri senza apparente legame tra di loro. Da un lato ho scoperto in un’amica persa di vista da tempo ma non dimenticata, un’amante e un’ attraversatrice di ogni tipo di deserto; dall’altro mi sono imbattuto in una storia chassidica riferita anche da Elie Wiesel (Le porte della foresta, Tea edizioni).
La storia racconta come il fondatore del chassidismo , rabbi Israel ben Eliezer, detto il Baal Shem, quando doveva regolare una questione difficile e richiedere l’aiuto divino a favore delle altre creature, si recasse in un punto di una foresta, accendesse un fuoco e, immerso in meditazione, recitasse una preghiera. E tutto avveniva secondo le sue attese. Col passare delle generazioni, la memoria di parti del rituale venne perduta: il magghid di Meseriz non sapeva più accendere il fuoco, ma sapeva dire le preghiere e così tutto andava secondo il suo desiderio. Il rabbi Moshe Leib di Sassow non sapeva più accendere il fuoco e non conosceva più le meditazioni segrete da cui sgorgavano le preghiere, ma ricordava il luogo della foresta dove queste cose avvenivano e tutto ciò bastava. Infine, una generazione successiva, il rabbi Israel di Rischin, difronte allo stesso compito, non ricordava più neppure il luogo del rito, ma era in grado di raccontare questa storia. E sembra che Dio ami le storie e quelli che le sanno raccontare. Infatti il suo racconto da solo ebbe il medesimo effetto dei gesti degli altri tre.
Al centro di tutta questa storia c’è una perdita, un’assenza. Tutto il nostro raccontareprocede da cesure, da perdite rispetto all’evento o agli eventi iniziali o fondatori del nostro esistere. In fondo ogni racconto attesta un’assenza. Non ci sarebbero racconti senza questa assenza, questa distanza. Nonostante il crollo postmoderno delle grandi narrazioni di cui parlava Lyotard, il raccontare ci costituisce come umani. Il raccontare, il racconto, i racconti, ci richiamano all’al di là di noi. I racconti richiamano e ci rendono partecipi di una storia che non è la nostra, o non lo è più, ma ci riguarda, ci coinvolge ancora forse; ci offre una possibilità di identificazione, di progettualità, di speranza. Ci rende presente l‘assente. Non come un pellegrinaggio in luoghi o tempi “diroccati” della storia. Ma come offerta di atteggiamenti possibili nel presente. Come offerta di legamio di consapevolezza di legami.
Ecco allora anche il senso delle suggestioni comunicatemi dall’amica esploratrice di deserti. Quell’amica sperimenta, – cerca? -, l’assenza, anche fisicamente. Quasi a dire che è possibile vivere anche l’assenza e attraversarla!
Cerca forse una presenza attraversando l’assenza più silenziosa? Quella dei deserti infatti è un’assenza molto simile al nulla. Molto simile alla nostra condizione d’oggi! Una condizione che sembra priva di memoria ma anche di futuro e di direzioni. Però il navigare nel silenzio e nell’assenza dice anche una possibilità. La possibilità dei “fuochi nel deserto”. Lì dove a un gruppo di nomadi pellegrini non resta che raccogliersi in circolo, la sera, intorno a un fuoco, in attesa dell’albae della luce del giorno. E intorno a quel fuoco, abbracciati da quel silenzio maestoso e talora spaventoso, raccontare storie possibili e impossibili. Per farsi compagnia ma anche per tentare di intravvedere il domani!
E lì, intorno a quel fuoco, sono possibili e necessarie e bene accette storie di ogni tipo. Storie frutto di ricordi, di fantasie, di immaginazione, di creatività, di amore del rischio e dell’avventura, di scienza e di sapienza, di fedi e di sogni, di miti e talora di rimpianti e nostalgie.
Nel silenzio del deserto e nel buio della notte i racconti – tutti i racconti – sono sempre benvenuti e beneauguranti. I racconti intorno ai fuochi nel deserto ricostituiscono e riscoprono la comunità e il legame originarioche costituisce gli umani, come è attestato dallo stesso fenomeno del linguaggio. Tutti i racconti sono in grado di ritagliare uno spazio nel presente al possibile e alla speranza. Certo, se trovano dei bravi narratori. Certo, se i narratori non si lasciano trascinare in derive dottrinali trasformando le loro storie in catechismi e annullando il potenziale di sogno e di fascinazione che sta dentro ogni racconto. Certo se i narratori non usano i racconti per stabilire gerarchie e poteri, facendo perdere alle storie il potenziale di liberazione che sempre hanno avuto i racconti degli umani.
4 commenti
Anonimo
Lacan parla di presenza dell'assenza, a significare l'impatto che l'assenza può avere sulla nostra personalità. Si potrebbe dire che l'assenza è come uno specchio autentico del nostro vero essere?
Anonimo
Dulce sine verbis transire! Gratum ad silentium pergere!Suave sine nominedeseri in desertis!
Anonimo
Forse si potrebbe dire che noi siamo quello che non siamo…. Che io sono l'Altro… O almeno che non sono mai solo me stesso…sono qualcosa che mi manca!
Anonimo
apofasia dell'essere, dunque.