Happy hour! Sappiamo ancora cosa raccontare?
Pensiero unico, o omologazione del pensiero (che, in realtà, non è altro che l’azzeramento del “pensare”) è, anche, quell’accettazione inconsapevole del linguaggio dominante, in cui le domande fondamentali sono congedate quali domande generali, cioè vaghe, astratte, non operazionali.
Mi pare, anche questo, uno degli effetti dello slittamento progressivo delle istanze intermedie della democrazia, verso quella che Zagrebelsky ( il suo Il “crucifige” e la democrazia, Einaudi, è da rileggere!) considera una “acritica democrazia del popolo”, verso quelle derive populistiche che apparentemente promettono di “semplificare” i meccanismi democratici, garantendo una maggiore partecipazione “diretta”, ma, in realtà, conducono al “volontario” dissolvimento della capacità di valutare criticamente le scelte politiche e pubbliche. Una condizione, quest’ultima, (nella quale, sembra, siamo, “felicemente”, irretiti) che, forse, spiega anche quella “fuga” dalla “responsabilità verso il presente”, di cui parla Franco Rella (La responsabilità del pensiero, Garzanti). Quel tipo di responsabilità, ( senz’altro uno dei tratti caratteristici, e nobili, dell’epoca moderna) che ha reso possibili pensieri e racconti, i quali, attraverso la filosofia, ma anche e, forse soprattutto, attraverso la letteratura e l’arte, hanno “accompagnato” il cammino degli umani.
Ma oggi, siamo ancora capaci di “pensare il nostro tempo”? di dare un nome al nostro presente e al nostro esistere quotidiano? Siamo ancora capaci di trarre una storia e un senso dalla “nebulosa di quella miriade di fatti che ci appaiono senza legami tra loro, di riassumere quei fatti in un racconto convincente” (Rella)? Sappiamo ancora dire, oggi, di cosa facciamo esperienza e raccontarci con un minimo di senso, producendo almeno uno “straccio” di trama? O vale quanto scrive Rella, secondo cui pare che “non abbiamo parole che non siano una lamentazione regressiva…(da parte di alcuni) oppure (da parte di altri) una supina accettazione” di quello che viene proposto e “appare” come la promessa di “magnifiche sorti e progressive”?
Siamo ancora capaci di fare domande (prima di tutto a noi stessi: e come potremmo essere capaci di “raccontare” e “raccontarci” senza domande?), o siamo, ormai, travolti, tutti, dalla marea montante, rappresentata dalla coazione ossessiva a sgombrare il campo da ogni domanda che non sia solo la “fuga” verso qualcos’altro? Siamo, forse, tutti, “comparse” di una permanente, “virtuale”, happy hour?, ora (d’aria?) felice? Quella in cui “dal tardo pomeriggio fino a sera molti giovani, soprattutto studenti universitari, si muovono per la città per raccogliersi casualmente e agglutinarsi, sul marciapiede davanti a un bar. Raramente siedono ai tavolini, perché sedersi a un tavolo significa trovarsi in un piccolo gruppo, guardarsi in faccia, guardarsi negli occhi, parlare. Preferiscono stare i piedi, con il bicchiere in mano, scambiandosi qualche parola che si perde nel brusio che si leva uniforme dal gruppo. Attraversare quella concentrazione di persone dà l’impressione di aprirsi un varco che, come in una risacca, si chiude dopo il nostro passaggio. L’ora felice è proprio un’ora soltanto. Finisce, e, un po’ alla volta, da quella nebulosa si dipartono singoli, piccoli gruppi. Il gruppo si dissolve, non resta più niente”. …”Nell’happy hour non c’è comunicazione, ma trasmissione per contagio, verrebbe da dire. È l’ora in cui le parole…diventano rumore, un brusio che si disperde nel crepuscolo” (Rella) e non dice più niente!
Siamo, tutti, quei giovani? Ci hanno fatto diventare così?
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6 commenti
Anonimo
Sì, tocca proprio ai nostri occhi ridare senso alle parole, contemplando il “vero”quando ci aggiriamo nei “non luoghi” del presente. Saranno le parole di un nuovo e strano “idillio”. L'aridità dolorosa del cuore palpitante mentre si specchia nei viottoli di una campagna mortificata dalle “magnifiche sorti e progressive”, o nella caligine che annera i palazzi delle città. Saranno i nostri occhi a cucire uno “straccio di trama” guardando negli occhi uno di quei giovani “con un bicchiere in mano, in piedi, sul marciapiede davanti a un bar”. Una trama di parole sorgenti dalla contemplazione senza inganni sottrarrà le cose all'incombente destino di “agglutinazione”. Sarà una “visibile parola” a salvarci dal consenso al “pensiero dominante”, incuranti dell'oblio che “Preme chi troppo all'età propria increbbe”.
Anonimo
Per raccontare,per raccontarsi,occorre avere il gusto (da raffinare in arte)del curiosare.Dell'osservare per poi dedurre econtrollare se si è centrato il significato della vita.E',in effetti,un piacere sottile fine a sè stesso.La maggior parte delle persone, oggi, non è curiosa, non esercita questo sottile piacere di sapere… solo per sapere!Pertanto non ha nulla da comunicare, perchè su nulla ha, appunto,indagato,reflettuto,dedottoper leggere la realtà che li circonda e confrontarsi con la lattura fatta dagli altri.Il risultato è la “non comunicazione” se non di “rumori di sottofondo” senza significati.Se la convivenza è comunicazione, oggi una vera convivenza non c'è.C'è soltanto un incrociarsi di vite biologiche,non sociali.Mario Rosario Celotto
Anonimo
Siamo diventati tutti come quei giovani? Diciamo che stiamo diventando tutti “funzionari” di un meccanismo che non ha più bisogno di padroni e che si autoalimenta. E ne siamo “funzionari” tutti nell'Occidente, “ricchi” e “poveri” perché non regge più nemmeno la dialettica padrone – servo, visto che il “padrone” è ugualmente asservito a un meccanismo che regola anche la sua vita. Forse si verifica qui l'ultimo grado dell'alienazione marxiana, che non è più questione solo del lavoratore. Possibile salvezza? Una “volontà generale” che inverta le lancette dell'orologio e non ci faccia fare la fine dei dinosauri. Oppure – come una volta accennò Balducci – un incontro profondo tra Occidente e Oriente che ridia senso alla nostra umanità. Come andrà a finire?
Anonimo
Voglio credere che spetti a noi rivalutare momenti essenziali del nostro essere uomini e ridare senso e potere alla Parola e alla Comunicazione reale, faccia a faccia, umana, viscerale.Voglio credere che sia ancora possibile un incrociarsi sociale e culturale, una volontà individuale, che parta dal singolo essere umano, di comunicare, raccontare e raccontarsi agli altri per condividere esperienze, sapere, passioni. È vero che oggi in questa vita caotica e frenetica troppo spesso sottovalutiamo il bisogno di comunione e di condivisione con l'altro, eppure è un'esigenza che chiunque sperimenta quotidianamente:l'uomo non è fatto per vivere solo. E anche chi si trova fuori ad un bar sul marciapiede sorseggiando un drink, forse in quel momento, a modo suo, vuole farsi cullare dal brusio di parole gettate lì a caso, quasi a riempire un vuoto più importante e su cui interrogarsi, ma sono sicura che ci saranno momenti in cui sentirà il bisogno di Parlare e raccontarsi. Magari si rifugerà in rete, su un blog, dietro un nickname, ma parlerà al mondo, tesserà la trama complessa della sua storia e condividerà con altri utenti momenti della sua vita reale, concreta. Forse non avrebbe lo stesso coraggio e non parlerebbe in quel modo se si trovasse faccia a faccia con una persona, perchè è un uomo figlio di questo tempo, figlio di questa passività e di questa debolezza che non ci spinge ad assumerci sempre la responsabilità delle nostre parole, delle nostre idee, delle nostre azioni.
Anonimo
…Eppure siamo soggetti pensanti, esistiamo e soprattutto Viviamo. Possiamo essere capaci di grandi cose, così come delle azioni più efferate, tutto dipende dalla nostra volontà. Ed è dalla volontà individuale che ciascuno dovrebbe (ri)partire e (ri)trovare il senso della propria vita, dell'essere uomo qui, ora, in questo momento momento storico e (ri)assumersi il coraggio delle proprie idee, dei propri pensieri per affermarsi in quanto essere sociale che contribuisce a scrivere e raccontare la Storia dell'Umanità a partire dalla propria e da quella dei propri simili.Non siamo pigri, né vuoti o spenti, siamo uomini che possono illuminarsi e accendere tante piccole fiammelle nel mondo capaci di parlare alle generazioni presenti e future. É un nostro diritto, ma anche un nostro dovere.Pina Spampanato
Anonimo
Leggendo queste riflessioni non ho potuto fare a meno di ricercare parole e collegamenti con un grande intellettuale dell'emigrazione, del quale mi piace riportare alcuni pensieri, scritti, decenni fa, nel nuovo continente durante gli anni bui dei regimi repressivi europei:”Ogni velo che si frappone nel commercio tra gli uomini è avvertito come una perturbazione nel funzionamento della macchina in cui non solo sono oggettivamente incorporati, ma con cui s'identificano con orgoglio. Che, anziché levarsi il cappello, si salutino con l'allò di una familiare indifferenza, o che, invece di lettere, si scambino «inter office communications» senza indirizzo e senza firma, sono sintomi, scelti a caso, di una paralisi del contatto. Paradossalmente, l'estraniazione si manifesta negli uomini come caduta delle distanze. Poiché solo in quanto non sono sempre a ridosso gli uni agli altri nel ritmo di dare e di prendere, discussione ed esecuzione, direzione e funzione, resta sufficiente spazio tra di loro per il tessuto sottile che li collega gli uni agli altri e nella cui esteriorità soltanto si cristallizza l'interiorità. Certi reazionari, come i seguaci di Jung, hanno osservato questo fatto, «È un'abitudine caratteristica delle persone che non sono ancora completamente foggiate dalla civiltà, quella di non affrontare direttamente un argomento, e di non nominarlo troppo presto; il colloquio deve dirigersi quasi da sé, a spirali, verso il suo vero oggetto» (G.R. Heyer, in un saggio su «Eranos»). Oggi, invece, il collegamento più breve fra due persone è, come tra due punti, la retta. Come accade per le pareti delle case che sono gettate in un pezzo solo, il cemento tra gli uomini è sostituito dalla pressione che li tiene insieme. Tutto ciò che si scosta da questo modello, non è più compreso, ed appare, se non come specialità viennese e cortesia da maitre d'hotel, come confidenza infantile e illecito approccio. Nelle due o tre frasi sullo stato di salute della consorte che precedono il colloquio d'affari al lunch, anche l'antitesi all'ordinamento degli scopi è stata afferrata e incorporata in quest'ultimo. Il tabù contro i discorsi professionali e l'incapacità di discorrere insieme sono, in realtà, la stessa cosa. Poiché tutto è affari, il loro nome non può essere fatto, come non si può parlare della corda in casa dell'impiccato. Dietro la demolizione pseudodemocratica delle formalità, della cortesia vecchio stile e della conversazione ormai inutile e sospetta ? non del tutto a torto ? di non essere che pettegolezzo, dietro l'apparente chiarezza e trasparenza dei rapporti umani, che non tollera più nulla di indefinito, si annuncia la pura brutalità. La parola diretta, che senza dilungarsi, senza esitare, senza riflessione, ti dice in faccia come stanno le cose, ha già la forma e il tono del comando che, sotto il fascismo, i muti trasmettono ai muti. La semplicità e oggettività dei rapporti, che elimina ogni orpello ideologico tra gli uomini, è già diventata un'ideologia in funzione della prassi di trattare gli uomini come cose.”(Theodor W. Adorno – Minima Moralia / Meditazioni della vita offesa)