Link. Comunicazioni e identità
Solitamente, l’aspetto più evidenziato dagli studiosi come uno dei paradossi dell’età dell’informazione e della comunicazione, è il rischio della “Babele”, cioè di un tale moltiplicarsi ed esasperarsi delle “connessioni”, delle informazioni e delle prospettive, da rendere molto problematici l’orientamento, la decodificazione dei messaggi e la stessa comunicazione. Tuttavia, riflettendo su alcune argomentate osservazioni critiche, emerse in una discussione con una giovane amica, mi pare necessario dirigere l’attenzione anche su un aspetto diverso del fenomeno della comunicazione contemporanea, di cui non abbiamo sufficiente consapevolezza, noi che viviamo, ormai, quasi continuamente “connessi” e, quindi, immersi totalmente nelle dinamiche comunicative. In breve, la mia interlocutrice diceva che è la stessa ricerca della relazione a ogni costo, e della comunicazione, col conseguente bisogno di rendersi “accettabili”, che potrebbe produrre la disintegrazione dell’io e dell’identità. Quindi la perdita dell’unità del nostro essere. Come si vede, non è un problema da poco, né privo di ragioni. E allora? Quali le alternative? Come considerare il gioco tra identità e comunicazione? Penso che le alternative da considerare potrebbero essere diverse. Prima di tutto, sul piano personale. Qui, qualcuno potrebbe considerare un’alternativa – per evitare la temuta “liquefazione” dell’io (vedi a tale proposito le analisi di Bauman su “società liquida” e “amore liquido”) – quella di tentare di chiudersi nella difesa della propria originalità, del proprio io e della propria libertà. Si salverebbero così, a ogni costo, la propria autonomia e integrità, scegliendo di diventare, sul piano personale, un po’ “orso”, attento a non pagare un prezzo troppo alto nei rapporti o nelle relazioni, lasciandosi sempre una “porta aperta”, come si dice oggi. Certo, questo potrebbe significare la rinuncia a vivere esperienze significative e coinvolgenti e la scelta di relazioni che non mettano in gioco e non chiedano niente di sé, né concedano troppo agli altri. La domanda, però, è se relazioni del genere non significhino, in fin dei conti, la rinuncia a vivere una piena vita umana, nell’unico modo, imperfetto, in cui è possibile a noi, poveri “umani”. Su un piano più ampio, sociale, politico o religioso, una soluzione potrebbe essere considerata l’ “arroccamento” in difesa della propria identità e integrità o della propria presunta superiorità, assumendo mentalità e atteggiamenti xenofobi, razzisti o fondamentalisti. Quest’ultima scelta, sul piano sociale politico o religioso, è, difatti, la strada spesso seguita oggi, nel tempo della globalizzazione, da tanti, che, in buona o, più spesso, in mala fede (come spesso accade in una politica che diventa sempre meno “politica” e sempre più un inseguire tutti gli “umori” delle proprie clientele), tentano di impedire o di ridurre, con tutti i mezzi, lo scambio, la comunicazione e l’integrazione con l’altro e con gli “altri”, sperando in questo modo di mantenere il proprio “spazio vitale” e di salvare la propria “nicchia” biologica, culturale o religiosa. Un’altra possibilità, però, sul piano personale, ma anche, in fin dei conti, su quelli sociale e culturale, potrebbe consistere nell’accettare di rischiare e giocarsi il proprio io e la propria identità, consapevoli che, per noi “umani”, non c’è altra strada per “vivere” veramente. Dal momento che la nostra identità, in quanto persone e in quanto gruppi, la riceviamo, noi “animali simbolici”, dai nostri rapporti, positivi o negativi che siano. La possibilità di molteplici, complesse e, talora, contraddittorie, relazioni, nelle quali si riceva ma si dia anche molto, ci potrebbe, forse, consentire di vivere, in un certo senso, molte vite (a noi, che ne abbiamo una, molto limitata), così come a un attore bravo è consentito di vivere, attraverso i vari ruoli, molte esperienze. Certo, l’attore che vive pienamente e intensamente – come dovrebbe un bravo attore – i diversi ruoli, può correre il rischio di perdersi e di non sapere più bene chi è. Ma, intanto, avrebbe vissuto non superficialmente la sua vita, benché solo sulla scena, poiché è quella la sua vita. Del resto, chi, singolo o collettività, conosce veramente qual è il proprio vero “io”, da salvare?, chi ha detto che il nostro “io” è costituito da un’identità rigida, definita una volta per tutte e circoscritta, da conservare così come è, e non invece una storia, la cui sola unità, o integrità, è quella, complessa, delle storie?
3 commenti
Anonimo
“Non cercar di comprendere la vita ed essa ti sarà tutta una festa, sì come il bimbo correndo nel vento lascia ogni brezza regalargli fiori. Non si china a raccoglierli dal suolo, li discioglie pian piano dai capelli ove eran prigionieri. E nuovamente poi tende le mani ai fiori in boccio che saran domani”. Sono ormai miei questi versi di Rilke trascritti sul filo della memoria, perché la lettura è una relazione che dà forma all'identità come ogni altro incontro vissuto intensamente. Mi ricordo anche di quando, in un convegno sul tema dell' “Identità” ad Assisi, ascoltai Raniero La Valle che leggeva “La prima lettera di San Paolo ai Corinzi” sostituendo la parola “carità” con “identità”. “L'identità è paziente, è benigna, non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia… L'identità non avrà mai fine”. Ecco, l'identità non avrà fine se non con la nostra fine. Solo allora, forse, si comporrà una forma compiuta di quello che siamo stati. Ma prima, come dice Rilke, è bene abbandonarsi alla vita, accogliendone come un dono ogni esperienza ed incontro . È una feconda disposizione dell'anima l'accoglienza. Accolgo prima me stesso e mi riconosco nel mondo in silenzio, e poi accolgo tutte le identità del mondo. Non inseguirò “relazioni ad ogni costo” per “il bisogno di rendermi accettabile” se mi sono riconosciuto al di là di quello che inesorabilmente cambia. Confrontando nel tempo le nostre “carte d'identità”, vediamo la metamorfosi, ma anche un'impronta misteriosamente immutata. Quella luce degli occhi e del sorriso mi dice che sono io. Così come mi corrispondono quelle note malinconiche o giocose che mi accompagnano da sempre. Non esiste al mondo niente di “integro” al di là, forse, dell'integrità di un cuore disposto all'accoglienza. Il vento trasporta i semi in terre diverse. I fiori si scambiano i colori. La paura di cambiare, invece, può generare mostri. Oggi si vedono in giro mostruose identità irrigidite da una forma senza vita. Volti e corpi scolpiti dal bisturi nel tentativo di inseguire un'identità accettabile a se stessi e agli altri. Ma anche quelle forme mutano, si de – formano, fino ad apparire informi, senza alcuna identità appunto. Allo stesso modo muore una personalità che ha paura di contaminarsi nella relazione. Ammesso che si possa immaginare un essere umano che diventi tale al di fuori della relazione e della comunicazione. Nasciamo da una relazione e da una contaminazione. Il nostro io prende forma dall'esperienza della relazione fin dalla culla. Da quel primo sguardo che ci accoglie nel mondo. E se queste prime esperienze sono solo dolorose, siamo condannati per sempre? A volte, ahimè, può capitare. Ma più spesso avviene che muovendo i nostri passi nel mondo scopriamo le infinite possibilità di essere. Ci guardiamo nello specchio di una grande e diversa umanità. Quell'impronta unica del nostro io prende forma nella trasformazione. Mi piace l'esempio dell'attore. Ma il grande attore è unico. In tutte le interpretazioni c'è un' unicità riconoscibile. È l'interpretazione di “quell'attore”, non di un attore qualsiasi. Del resto molti grandi scrittori hanno assimilato la vita ad un teatro dove tutti siamo spettatori ed attori. Ma essere attori implica l' “agire” diversi ruoli, non il “fingere”. E l' “agire” segue una scelta responsabile affidata al nostro io. In tale scelta si mantiene integra la nostra identità, nel “ personale” e nel politico. E allora non possiamo essere spettatori di una politica che addirittura impone l'insegnamento del dialetto per preservare l'identità. Come se il dialetto non derivasse da un' ibridazione avvenuta nella comunicazione viva di secoli di storia. La ricchezza di un'identità personale o politica è sempre generata da una contaminazione. Il commediografo latino Terenzio, più di duemila anni fa, difese la “contaminazione” nell'arte, nella cultura e nella vita: “Sono un uomo, pertanto, niente di quel che riguarda l'umanità mi è estraneo”.
Anonimo
“Non cercar di comprendere la vita ed essa ti sarà tutta una festa, sì come il bimbo correndo nel vento lascia ogni brezza regalargli fiori. Non si china a raccoglierli dal suolo, li discioglie pian piano dai capelli ove eran prigionieri. E nuovamente poi tende le mani ai fiori in boccio che saran domani”. Sono ormai miei questi versi di Rilke trascritti sul filo della memoria, perché la lettura è una relazione che dà forma all'identità come ogni altro incontro vissuto intensamente. Mi ricordo anche di quando, in un convegno sul tema dell' “Identità” ad Assisi, ascoltai Raniero La Valle che leggeva “La prima lettera di San Paolo ai Corinzi” sostituendo la parola “carità” con “identità”. “L'identità è paziente, è benigna, non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia… L'identità non avrà mai fine”. Ecco, l'identità non avrà fine se non con la nostra fine. Solo allora, forse, si comporrà una forma compiuta di quello che siamo stati. Ma prima, come dice Rilke, è bene abbandonarsi alla vita, accogliendone come un dono ogni esperienza ed incontro . È una feconda disposizione dell'anima l'accoglienza. Accolgo prima me stesso e mi riconosco nel mondo in silenzio, e poi accolgo tutte le identità del mondo. Non inseguirò “relazioni ad ogni costo” per “il bisogno di rendermi accettabile” se mi sono riconosciuto al di là di quello che inesorabilmente cambia. Confrontando nel tempo le nostre “carte d'identità”, vediamo la metamorfosi, ma anche un'impronta misteriosamente immutata. Quella luce degli occhi e del sorriso mi dice che sono io. Così come mi corrispondono quelle note malinconiche o giocose che mi accompagnano da sempre. Non esiste al mondo niente di “integro” al di là, forse, dell'integrità di un cuore disposto all'accoglienza. Il vento trasporta i semi in terre diverse. I fiori si scambiano i colori. La paura di cambiare, invece, può generare mostri. Oggi si vedono in giro mostruose identità irrigidite da una forma senza vita. Volti e corpi scolpiti dal bisturi nel tentativo di inseguire un'identità accettabile a se stessi e agli altri. Ma anche quelle forme mutano, si de – formano, fino ad apparire informi, senza alcuna identità appunto. Allo stesso modo muore una personalità che ha paura di contaminarsi nella relazione. Ammesso che si possa immaginare un essere umano che diventi tale al di fuori della relazione e della comunicazione. Nasciamo da una relazione e da una contaminazione. Il nostro io prende forma dall'esperienza della relazione fin dalla culla. Da quel primo sguardo che ci accoglie nel mondo. E se queste prime esperienze sono solo dolorose, siamo condannati per sempre? A volte, ahimè, può capitare. Ma più spesso avviene che muovendo i nostri passi nel mondo scopriamo le infinite possibilità di essere. Ci guardiamo nello specchio di una grande e diversa umanità. Quell'impronta unica del nostro io prende forma nella trasformazione. Mi piace l'esempio dell'attore. Ma il grande attore è unico. In tutte le interpretazioni c'è un' unicità riconoscibile. È l'interpretazione di “quell'attore”, non di un attore qualsiasi. Del resto molti grandi scrittori hanno assimilato la vita ad un teatro dove tutti siamo spettatori ed attori. Ma essere attori implica l' “agire” diversi ruoli, non il “fingere”. E l' “agire” segue una scelta responsabile affidata al nostro io. In tale scelta si mantiene integra la nostra identità, nel “ personale” e nel politico. E allora non possiamo essere spettatori di una politica che addirittura impone l'insegnamento del dialetto per preservare l'identità. Come se il dialetto non derivasse da un' ibridazione avvenuta nella comunicazione viva di secoli di storia. La ricchezza di un'identità personale o politica è sempre generata da una contaminazione. Il commediografo latino Terenzio, più di duemila anni fa, difese la “contaminazione” nell'arte, nella cultura e nella vita: “Sono un uomo, pertanto, niente di quel che riguarda l'umanità mi è estraneo”.
Anonimo
C'è un chiaroscuro molto netto con cui, lucidamente, si tratteggiano gli ingrendienti essenziali dell'identità: un ricordo inatteso mi ha riportato alla memoria le parole di Dostoevskij in un'opera dai contorni ancora una volta straordinariamente forti:“Volete sapere perché mi sono sbronzato a questo modo? Perché mi hanno fatto discutere, quei maledetti! E sì che avevo giurato di non discutere più!… Dicono certe corbellerie! Per poco non menavo le mani! Ho lasciato là mio zio, a far gli onori di casa… Potete non crederci, ma quelli vogliono la distruzione totale della personalità, e ci provano un gran gusto! L'importante è non essere se stessi, assomigliare il meno possibile a se stessi! Questo, per loro, è il vertice della civiltà. Almeno lo esprimessero in qualche maniera originale…”e ancora:“Sparale grosse, ma che sia farina del tuo sacco: e io ti vorrò un bene dell'anima. Spararle grosse a proprio modo, è quasi meglio che dir la verità al modo altrui; nel primo caso sei un uomo, nel secondo sei solo un pappagallo! La verità non scappa mai, mentre c'è il pericolo di imprigionare la vita…”Dostoevskij Fedor – Delitto e castigo